Raffaela Perrone ha vent’anni, fa la prostituta e verso la fine del mese di marzo 1938 resta incinta. Poi il 13 dicembre 1938, essendo prossima a sgravare, si ricovera all’Ospedale Civile di Cosenza ove, la mattina del giorno di Natale, dà alla luce una bambina sana e bella. Non vuole riconoscerla e non la riconosce, così alla piccolina viene imposto il nome di Natalina Sasselli d’ignoti e viene lasciata a balia dalla sua mamma/nonmamma.
Natalina ha fame di crescere, perciò quando è l’ora della poppata si attacca avidamente al seno e succhia che è una bellezza. Anche verso lo scoccare della mezzanotte del 5 gennaio Natalina succhia avidamente dal seno di quella donna che non potrà mai chiamare mamma. Raffaela la guarda, aiutata dalla debolissima luce di una misera falce di luna che penetra dai finestroni della camerata dell’ospedale e sembra commuoversi, le passa una mano sulla testolina fin sulla nuca e quindi sul collo. Chiude gli occhi, serra le labbra e stringe la mano con tutta la forza che ha su quella carne tenerissima e sente la boccuccia staccarsi dal capezzolo, il rumore del rigurgito, del respiro strozzato, delle vertebre che scricchiolano nella sua mano. Poi più niente, molla la presa e la testolina della creatura si rovescia all’indietro. Nessuna delle altre donne ricoverate ha sentito nulla. Se la tiene stretta al suo fianco finché, verso le 3,30, una suora fa un giro d’ispezione nella camerata, vede che Natalina non è nella sua culla e la prende in braccio.
L’urlo della monaca sveglia tutte le donne e tutti i neonati che cominciano a piangere. Arriva l’Agente di Polizia di servizio che interroga immediatamente Raffaela, pallidissima e con la febbre molto alta:
– La mia figliuola veniva da me allattata per cui durante la notte dormiva accanto a me… – si ferma e invece di continuare a raccontare ciò che è accaduto, racconta quella che sembra un’altra storia – il 30 dicembre venne a trovarmi mia sorella Ersilia che, appena vide la bambina, m’ingiunse in modo minaccioso di ammazzarla poiché, in caso contrario, all’uscita dall’ospedale ci avrebbe ammazzate. Tali minacce mi erano state fatte anche durante la gravidanza; mia sorella mi diceva continuamente di sopprimere la bambina non appena nata… sotto tale incubo mi son decisa, nella decorsa notte, di uccidere la mia figliuola e difatti verso le 24,00, mentre la piccina poppava al mio seno, le ho stretto fortemente la gola dalla parte posteriore del collo, fino a quando essa rimase soffocata…
Ancora più terribile di quanto già non sia, se l’accusa di Raffaela sarà provata. Intanto, in vista di ciò, le due sorelle vengono tratte in arresto e, con verbale 6 gennaio 1938, denunziate. Raffaela quale colpevole di omicidio volontario, Ersilia di istigazione.
Raffaela viene immediatamente dimessa dall’ospedale per essere portata in carcere, ma appena entra in cella deve essere soccorsa dal medico e ricoverata nell’infermeria della prigione perché la febbre ormai è arrivata a 39°.
Le indagini sono velocissime e nei diversi interrogatori a cui viene sottoposta, Raffaela mantiene ferma la sua versione dei fatti, mentre Ersilia si dichiara completamente estranea ai fatti e le due litigano furiosamente durante il confronto a cui vengono sottoposte. Intanto la prima ipotesi di omicidio volontario viene appesantita dall’aggravante di avere commesso il fatto contro il discendente.
Il 5 marzo, esattamente due mesi dopo la tragica morte di Natalina, il Giudice Istruttore rinvia Raffaela al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza e dichiara non doversi procedere contro Ersilia per non aver commesso il fatto.
La causa viene immediatamente iscritta a ruolo e il dibattimento si svolge nelle udienze del 23 e 24 giugno 1938. Subito c’è un colpo di scena: Raffaela ritratta e cambia radicalmente versione:
– Non ho soffocato volontariamente la bambina e non so spiegare la ragione per la quale la trovai morta… forse perché sono stata assalita, dopo il parto, da febbri… forse nella notte fatale mi addormentai profondamente e la soffocai inavvertitamente posando il mio corpo sul viso della bimba… sapete, durante tutto il mio puerperio fui giornalmente contristata da febbri alte, tanto che appena entrata in carcere il medico mi assegnò all’infermeria…
La nuova versione è sconcertante e la Corte, pur ritenendo la ritrattazione inattendibile, decide di ascoltare il dottor Laurelli, medico del carcere, che dice:
– Appena arrivata in carcere, la stessa mattina in cui fu trovata morta la bambina, aveva la febbre a 39 gradi, non che trovavasi fisicamente assai sciupata ed era anche affetta da annessite pregressa [Infiammazione acuta o cronica degli annessi uterini, cioè dell’ovaio e della tube. NdA]. Tali disturbi possono avere influenza sui centri nervosi…
Questo cambia le carte in tavola. Infatti adesso il Pubblico Ministero chiede, nella sua requisitoria, che la prevenuta sia, col beneficio della semi infermità di mente, condannata ad anni 24 di reclusione. La difesa, da parte sua, chiede che, eliminata l’aggravante del rapporto di discendenza e concesso il vizio parziale di mente, Raffaela sia dichiarata responsabile di omicidio colposo e condannata al minimo della pena.
Già, il vincolo di discendenza. Come può la difesa chiedere che sia eliminata questa aggravante dal momento che una madre ha ucciso la propria figlia? La Corte dovrà, in un caso o nell’altro, spiegare bene. Intanto esclude che possa essersi trattato di un tragico incidente: ella, soffocando la bimba intese, con quell’atto disperato, da un canto cedere alle sataniche suggestioni della sorella che, senza istigare o minacciare, la indusse a delinquere facendole notare che la presenza di quella bimba le avrebbe impedito di esercitare liberamente il meretricio e dall’altro canto tentò di liberarsi, d’un colpo, da ogni vincolo, peso e responsabilità che l’educazione della bimba le avrebbe in ogni caso imposto. In più, la Corte aggiunge che la tardiva ritrattazione altro non è che una evidente risorsa difensiva venuta a seguito di ben individuabili suggerimenti. È da notare, però, che la Corte non usa mai il termine “figlia”, bensì quello di “bimba”. Perché?
Perché, senza scandalizzarci, la difesa ha ragione e la Corte spiega: devesi, per giunta, degradare la rubrica da omicidio aggravato pei rapporti di parentela in omicidio semplice, nonostante la prevenuta, contrariamente agli atti di stato civile, si sia confessata madre della creatura da lei uccisa, la quale è ufficialmente figlia di ignoti. Le disposizioni che regolano lo stato di famiglia costituiscono un divieto insuperabile che impedisce di affermare, in sede penale, che esiste un rapporto di parentela da ascendente a discendente tra il soggetto attivo del reato e quello passivo. Il Codice Civile dispone che il riconoscimento di un figlio naturale riconoscibile (come trattasi del caso in esame, non essendo l’imputata legata da vincoli di precedente matrimonio) deve andar fatto nell’atto di nascita o con atto autentico. In concreto non si è avverata alcuna delle due condizioni perché l’atto di interrogatorio raccolto da chi legalmente presiedeva all’istruzione del processo aveva finalità ben diverse da quelle di voler riconoscere la figlia naturale. In ogni caso non è pensabile, ammesso che fosse stata a conoscenza delle disposizioni di legge, che la Perrone abbia voluto, col suo interrogatorio, riconoscere la figlia da lei già uccisa, per la sola conseguenza di incorrere nella maggior pena dell’aggravante.
La Corte ammette anche che non ha elementi per dichiarare erroneo il giudizio del dottor Laurelli o, poi, di negare che le condizioni psichiche della giudicabile siano rimaste influenzate e ridotte dalla povertà del fisico, travagliato dalle alti febbri (le quali sogliono determinare agitazioni e deliri in organismi anche robustissimi) che, anzi, la gravità del delitto commesso senza causa proporzionata, la mancanza di cautele e della più elementare astuzia, che ogni altra avrebbe usata, per tentare di rendersi insospettabile e la facilità a scivolare nella confessione del delitto, appigliandosi a scusanti illogiche e false quali le inventate minacce della sorella, fan seriamente pensare che la prevenuta ebbe a delinquere mentre trovavasi in uno stato di obnubilamento cerebrale, tale da diminuirle la coscienza dei suoi atti. Ciò significa che la Corte accorda l’attenuante della semi infermità di mente.
È tempo di fare i conti: Raffaela Perrone è colpevole di omicidio volontario, esclusa l’aggravante del rapporto di discendenza ed in concorso del vizio parziale di mente. La pena è fissata in anni 14 di reclusione.
Così deciso in Cosenza il 24 giugno 1938.[1]
A Natalina, uccisa mentre poppava dal seno della sua mamma/nonmamma.
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.