Giuseppe Riccetti, ventisettenne sarto di Verbicaro, ha messo gli occhi sulla quindicenne Maria Tufo, sua vicina di casa, e vorrebbe sposarla perché il padre della ragazzina, emigrato Allamerica, potrebbe fornirle una buona dote. Giuseppe si fa avanti, parla con la madre, Anna Maria Rinaldi, che non si mostra contraria e gli permette di frequentare la casa come fidanzato.
Ma Anna Maria non può da sola contrarre un impegno definitivo col giovine e crede doveroso informare il marito di quanto sta avvenendo. La lettera di risposta che riceve non lascia adito a dubbi: di matrimonio non se ne parla nemmeno, non solo per la tenera età della giovinetta, ma anche per le qualità personali di Giuseppe, da lui conosciuto come persona poco amante del lavoro e di indole non buona. Anna Maria, come fa sempre da quando il marito è emigrato, ne parla con suo fratello Angelo e il consiglio che ne ottiene è lo stesso datole da suo marito. A questo punto bisogna comunicare a Giuseppe la rottura del fidanzamento, così lo manda a chiamare.
– Mi dispiace, mio marito è contrario e quindi devi smettere qualunque idea di sposare Maria e, di conseguenza, troncare ogni pratica, astenendoti specialmente dal frequentare questa casa.
– E figuratevi come dispiace a me! Se questa è la volontà del padre farò come volete…
Ma tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare. Si, perché Giuseppe a parole ha accettato la situazione, ma in pratica mostra di non volere acquietarsi alla rottura delle trattative perché molto spesso di sera va sotto la finestra di Maria a tirare sassolini sui vetri per farsi notare dalla ragazza e altre cose simili. Una volta, addirittura, ha osato avvicinarla in campagna quando ella si è trovata da sola, sino a farle proposte indecorose. E se prima Maria non era infastidita dagli insistenti tentativi di Giuseppe, adesso è davvero determinata a troncare ogni rapporto, secondo il volere del padre.
Giuseppe, da parte sua, si convince che la rottura del fidanzamento non sia stata determinata da una decisione autonoma del padre di Maria, ma che una buona parte di responsabilità sia stata di Anna Maria e Angelo Rinaldi, che gli hanno parlato male di lui. Da qui il rancore verso i fratelli Rinaldi.
È la sera del 18 marzo 1937, a Verbicaro si festeggia la vigilia di San Giuseppe e praticamente tutto il paese è in piazza per attendere l’accensione dei fuochi pirotecnici. Anna Maria Rinaldi con Maria ed alcune amiche va nella bettola di suo fratello Angelo, dove potrà assistere comodamente allo spettacolo dei fuochi.
Mentre le donne sono nella bettola, verso le 20,00 entra Giuseppe Riccetti, alquanto eccitato dal vino, in compagnia dei fratelli Giuseppe e Francesco Annuzzi, suoi intimi amici. Non uno sguardo ostile o una parola fuori posto, anzi! Il sarto si mostra particolarmente gentile ed affettuoso verso Angelo Rinaldi, beve con gli amici qualche bicchiere di vino e ne offre uno anche al bettoliere.
– Lo sai che non posso bere perché soffro di artrite…
– E lo so, lo so – fa Giuseppe sorridendo, quindi si avvicina ad Angelo dandogli anche un bacio in segno di amicizia.
I tre amici, ai quali si unisce Giuseppe Iuliano, continuano a bere e chiacchierare per conto loro, poi se ne vanno ed entrano nel salone del barbiere Salvatore Arieta. E se Giuseppe Riccetti, nonostante sia alticcio, ha deciso di andare a trovare il barbiere, un motivo lo ha: lo ritiene responsabile di avere assicurato che realmente è stato lui a lanciare sassolini contro la finestra di Maria Tufo.
I tre entrano, richiudono la porta e affrontano a muso duro Arieta.
– Merda! O vieni con me ai Pioppi e ce la vediamo in lotta corpo a corpo, o ti rompiamo il culo qui dentro!
Sono momenti di terrore per Salvatore Arieta, strattonato di qua e di la dai tre che gli urlano in faccia di tutto. Ma le urla e i rumori provenienti dall’interno vengono sentiti da Giuseppe La Moglie che, passando davanti alla bottega comprende subito che il barbiere sta subendo un’aggressione e per impedirla bussa violentemente alla porta e urla, mentre apre la porta:
– Mi devo tagliare i capelli!
Giuseppe Riccetti si gira di scatto, lo vede e si lancia sull’uomo spingendolo fuori e richiudendo la porta.
– Non è questa l’ora di tagliare capelli!
La Moglie sa che da solo non può niente e si mette a girare intorno al salone per chiedere aiuto, così si imbatte nel milite fascista Antonio Rosignolo, il quale accorre prontamente e trova Salvatore Arieta sotto l’impressione del grave timore incussogli dagli aggressori. Li redarguisce severamente e li fa uscire, senza prendere altri provvedimenti nei loro confronti.
Non ancora soddisfatto, Riccetti, in compagnia degli Annuzzi, torna nella bettola di Angelo Rinaldi e chiede altro vino.
– È tardi, sono le undici, devo chiudere e vino non te ne posso dare più – gli risponde, più per impedire che i tre si ubriachino del tutto e possano combinare guai, che per altro. Quindi, per evitare questioni fa uscire tutti dal locale e chiude per davvero, mentre i tre spariscono nel buio.
Una volta fuori con la sorella, la nipote e qualche amico si avvia verso casa. Hanno percorso poche decine di metri quando dal buio appare improvvisamente Giuseppe Riccetti con un’arma in mano, forse un rasoio. Aggredisce Angelo Rinaldi e lo ferisce al volto. Il bettoliere, però, anche se sanguinante è pronto a reagire ed ingaggia una furibonda lotta con l’aggressore, ma l’artrite gli gioca un brutto scherzo: un ginocchio gli cede e cade a terra, trascinando con sé Giuseppe Riccetti. A questo punto in aiuto di Angelo intervengono sua sorella, sua nipote e due amici, Maria Dito e Battista Pignataro.
Ma Riccetti tira fendenti a destra e a manca e ferisce tutti i soccorritori, poi viene disarmato da Anna Maria Rinaldi che, a sua volta, lo ferisce al viso. In questo frattempo arrivano i Carabinieri. Il groviglio di corpi sanguinanti si scioglie come d’incanto e si possono medicare le ferite.
Angelo Rinaldi se la caverà in un mesetto, sua sorella Anna Maria in una decina di giorni; solo qualche graffio per Maria Dito e Battista Pignataro. Anche a Giuseppe Riccetti il taglio vicino all’orecchio guarirà in pochi giorni. Invece a Maria, la bella quindicenne, va peggio, molto peggio perché ha quattro tagli sul viso, le cui cicatrici la deturperanno per il resto dei suoi giorni.
Le denunce partono per Giuseppe Riccetti con l’accusa di minacce, violenza privata, lesioni personali, lesioni personali gravissime e porto abusivo di rasoio ed anche per i suoi compari accusati di complicità. Tutti vengono arrestati tranne Iuliano che risponde a piede libero. Viene denunciata anche Anna Maria Rinaldi per le lesioni personali cagionate a Giuseppe Riccetti, ma la donna viene subito prosciolta per avere agito in stato di legittima difesa.
Il dibattimento si tiene l’11 maggio 1937 in un’unica udienza e Giuseppe Riccetti ammette le sue responsabilità, ma si giustifica:
– Ho agito solo dopo essere stato ferito da Angelo e da Anna Maria Rinaldi i quali, per primi, mi si lanciarono contro… e per quanto riguarda la pretesa violenza privata nei confronti di Salvatore Arieta sono innocente perché non ho fatto niente… – quindi la difesa chiede l’assoluzione per legittima difesa o, in subordine, la condanna per eccesso colposo di legittima difesa.
Anche i fratelli Annuzzi si dicono innocenti, mentre Giuseppe Iuliano, tuttoché citato in regola, si è reso contumace.
I testimoni però smentiscono queste ricostruzioni e confermano tutte le accuse.
La Corte si sofferma sulle ferite riportate dalla povera Maria Tufo e constata che specialmente quella riportata sulla guancia altera l’armonia del viso della giovinetta e parte da questo dato per respingere la richiesta di assoluzione di Riccetti osservando che, essendo tali i risultati della prova, riesce manifesto come l’imputato si sia reso responsabile di lesioni gravissime, non trova alcun riscontro nella prova la discriminante della legittima difesa da lui addotta, né l’attenuante dell’eccesso colposo addotto dal suo difensore. È risultato infatti che egli, la sera del 18 marzo aveva stabilito di ferire il Rinaldi per trarre vendetta della parte che quegli aveva avuto nella rottura delle trattative matrimoniali e che le manifestazioni di affetto e cortesie da lui fatte al Rinaldi non erano altro che atti simulati, tendenti soltanto a fare comprendere agli Annuzzi che quella sera il bettoliere sarebbe stato aggredito. Quando poi, verso le ore 23, Riccetti si presentò nuovamente nella bettola e chiese vino, che gli fu negato, egli non aveva alcuna ragione di fermarsi sul luogo e quindi di mettersi a seguire Rinaldi nel cammino verso l’abitazione di costui, mentre invece fece ancora di più, cioè aggredì improvvisamente l’avversario, gli assestò pugni e calci, lo ferì con un’arma, cadde con lui nella buca, continuò a ferirlo in quel sito e poscia, rivoltosi contro le persone che erano accorse in aiuto di Rinaldi, inferse ad esse quanti più colpi poté, nella furia sanguinosa da cui era animato, e produsse così le lesioni alla Rinaldi, alla Tufo, alla Dito ed a Pignataro. Egli, pertanto, non si trovò mai nella necessità di agire per difendersi dal pericolo di un’offesa qualsiasi, giacché Rinaldi e le persone che lo accompagnavano non solo camminavano tranquillamente, ma erano del tutto inermi e non potevano mai pensare che Riccetti avrebbe compiuto contro di loro un’aggressione insistente e feroce, specialmente se avessero tenuto conto delle maniere amichevoli ed affettuose che Riccetti aveva adottato in occasione del primo ingresso nella bettola. Parti lese e testimoni sono concordi nell’assicurare che l’aggressione venne da Riccetti, che né i Rinaldi, né la Tufo o altri si trovarono mai in condizione di adoperare un’arma od un istrumento qualsiasi e che se Anna Maria Rinaldi, dopo che il fratello e lei stessa erano stati feriti, riuscì a strappare l’arma dalle mani dell’avversario e lo ferì al viso, si tenne, ciò facendo, negli stretti limiti dell’incolpata tutela, onde venne giustamente prosciolta.
Ma sorge un dubbio: l’arma di cui Giuseppe Riccetti si servì e che non è mai stata trovata, era veramente un rasoio? L’unica a dirlo è Anna Maria Rinaldi, mentre tutti gli altri giurano di non essere stati in grado, data l’oscurità, di distinguerla. Non è un dubbio di poco conto perché è in ballo l’aggravante del tipo di arma usata. La Corte supera così l’ostacolo: in assenza di prova decisiva che l’arma fosse un rasoio ovvero un altro strumento di cui sia vietato il porto, mentre le constatazioni generiche non fanno escludere che le lesioni siano state inferte con un coltello non vietato, consegue da ciò che l’aggravante dell’arma debba essere eliminata.
L’esclusione dell’aggravante comporta che le lesioni personali in offesa dei Rinaldi, della Dito e del Pignataro sono punibili con la reclusione da tre mesi a tre anni e rientrano quindi nell’amnistia concessa con R.D. 15/2/1937 n. 77 (art. 2), nella quale rientra altresì la contravvenzione ascritta a Rinaldi.
La Corte è pienamente convinta che ci siano prove sufficienti in ordine al tentativo di violenza privata ascritta ai quattro imputati, e non al reato di violenza privata per il quale sono stati rinviati a giudizio, perché è chiaro che essi compirono atti idonei (minaccia grave) tendenti, in modo non equivoco, alla consumazione di un reato (violenza o minaccia per costringere taluni a fare qualche cosa – recarsi in contrata Pioppi) e che il delitto non fu compiuto per l’opportuno intervento del milite fascista. Ed è chiaro, per la Corte, che il reato di tentata violenza privata debba essere aggravato dal numero delle persone che lo hanno commesso.
Accertate le singole responsabilità degli imputati, è il momento di quantificare le pene da infliggere.
Nel determinare la pena da infliggere a Giuseppe Riccetti per la lesione gravissima ascrittagli, deve aversi riguardo alla speciale natura del fatto, all’arma adoperata, al motivo a delinquere (spirito di prepotenza e sopraffazione), alla gravità dello sfregio prodotto dalla lesione, alle condizioni morali e sociali della persona offesa (giovinetta quindicenne , nubile, appartenente a buona famiglia) e, finalmente, al grado di pericolosità dal giudicabile dimostrato. Tenuto conto di siffatte circostanze, stimasi giusto infliggere al Riccetti anni sette di reclusione.
In ordine al tentativo di violenza privata, tenuto conto dei precedenti morali e penali dei giudicabili, dell’entità del fatto, del motivo a delinquere e del grado di pericolosità degli imputati, stimasi partire da anni uno e mesi tre di reclusione, diminuiti di due terzi per la circostanza del tentativo ed aumentarli di un mese – poco meno di un terzo – per l’aggravante del numero delle persone. La reclusione da applicare, in definitiva, si determina in mesi sei per ciascun imputato e la pena totale da espiarsi dal Riccetti si eleva ad anni sette e mesi sei.
Il tutto oltre le pene accessorie e il risarcimento dei danni alle parti civili.
Però in ballo c’è sempre il famoso decreto di amnistia e la Corte deve applicarlo, così per i fratelli Annuzzi e Giuseppe Iuliano la pena viene interamente condonata, mentre a Riccetti vengono condonati due anni di reclusione.[1]
La quindicenne Maria è, suo malgrado, l’unica a subire una condanna a vita: il viso orrendamente sfregiatole da Giuseppe Riccetti.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.