Nella notte tra il 6 ed il 7 settembre 1938, mercé chiave falsa, i ladri penetrano nei magazzini della SIRTI (Società Italiana Reti Telefoniche Interurbane) di Cosenza e rubano un trapano a mano, due biciclette ed una pinza universale. Le forze dell’ordine brancolano nel buio.
Passa una settimana, sono più o meno le 21,30 del 14 settembre, quando due uomini inforcano due biciclette e da Cosenza partono alla volta della frazione Corte del Comune di Aprigliano. Uno dei due porta un sacco semivuoto con dentro un trapano a mano, uno scalpello ed una pinza universale. In più, entrambi hanno in tasca una rivoltella.
Giunti sul posto, e precisamente sullo spiazzale da un lato costituito dalla rotabile Cosenza-Aprigliano-Sila e dagli altri tre da case di abitazione, nascondono le biciclette e vanno dritti verso la rivendita di tabacchi gestita da Rocco Cosentino, con l’evidente scopo di entrare e rubare tutto il possibile.
Il primo ostacolo da superare è una porta a vetri e nel forzarla uno dei due si procura un taglio ad una mano. Bestemmiando sottovoce, l’uomo tira fuori un fazzoletto e si tampona alla meglio la ferita. Poi si trovano davanti una porta di legno massiccio, rivestita di lamiera. Bisogna usare il trapano a mano per praticare un foro nel legno abbastanza largo da far entrare un braccio e sbloccare la serratura dall’interno. Lavorano di buona lena in silenzio, anche se la notte sembra amplificare ogni minimo rumore che potrebbe svegliare Rocco Cosentino, il quale sta dormendo al primo piano. Finalmente riescono ad aprire un buco quadrangolare di circa 15 centimetri e può bastare perché un braccio entra comodamente e il chiavistello può essere tirato e la porta aperta, senza che nessuno abbia sentito niente, almeno finora, almeno così sembra ai due ladri.
A questo punto i due uomini si dividono i compiti: uno, quello con la mano ferita, entra nella tabaccheria per arraffare contanti e valori bollati, mentre l’altro resta fuori a fare da palo, portando con sé le biciclette ed appiattendosi contro un muro ad una ventina di metri di distanza. Sono ormai le 3,00 del 15 settembre.
Ma i due hanno sbagliato a pensare che nessuno abbia sentito il rumore del trapano che forava il legno, perché Rocco Vigna, che dorme lì vicino con alcuni compagni di lavoro, li ha sentiti e, pensando che provengano da un magazzino attiguo alla tabaccheria, di proprietà di Rocco Tedesco, in silenzio va ad avvisarlo.
Tedesco, un omone che fa il macellaio, salta giù dal letto e si precipita in strada, seguito da Virginia Perri, dagli operai che lo hanno avvisato e da un paio di altre persone allarmate dall’inevitabile trambusto che si propaga da una casa all’altra. La porta del suo magazzino è intatta, ma quella della tabaccheria è socchiusa e quindi è certo che lì dentro sono entrati i ladri.
L’uomo all’interno della tabaccheria sta per tirate l’ultimo colpo di scalpello alla serratura del cassetto dove ci devono essere i soldi ed i valori bollati e non si accorge di ciò che sta avvenendo fuori. Anche il palo è sorpreso dall’improvvisa comparsa di quell’omone e finché si decide a fischiare nel modo convenuto è ormai tardi: Rocco Tedesco sta entrando e contemporaneamente urla per avvisare l’ignaro proprietario della tabaccheria:
– Zù Rocco! I ladri!
Rocco Tedesco è dentro. Il ladro è sorpreso e non fa in tempo a sottrarsi alla morsa di quelle enormi mani che serrano i suoi polsi e lo stanno trascinando fuori.
– Ti ho conosciuto! – gli urla Tedesco.
– Rocchino, lasciami o ti ammazzo! – e se lo ha chiamato per nome vuol dire che anche il ladro ha riconosciuto chi lo sta bloccando. Ma Rocco Tedesco, nella concitazione di quei brevi istanti, per di più praticamente al buio, non si è accorto che il ladro è riuscito a cavare dalla tasca la rivoltella e quella che gli è sembrata una ridicola minaccia, si trasforma in tragedia perché il ladro gli spara due colpi a bruciapelo, ferendolo a morte.
Rocco Tedesco, rantolando fa qualche passo, poi cade a terra gridando:
– Zù Rocco, son morto!
Ed è morto per davvero perché l’unico proiettile che lo ha colpito gli ha attraversato dall’alto verso il basso tutto un polmone ed uscendo dalla regione posteriore del torace, lateralmente alla sesta vertebra, ha reciso tutte le arterie che ha incontrato nella sua pazza traiettoria.
Il ladro è salvo, ma ha lasciato sul posto un morto, il suo cappello, il fazzoletto imbrattato di sangue, lo scalpello e la rivoltella tipo Francotto Liegi a cinque colpi.
I due ladri, ormai anche assassini, montano sulle biciclette e si lanciano lungo una scorciatoia che li porterà prima nel vicino paese di Pietrafitta e quindi in città, strada che i Carabinieri certamente non faranno in tempo a bloccare.
Ma nonostante la loro preveggenza la sorte non è benigna come speravano, poiché quando giungono nei pressi di Cosenza una pattuglia di Carabinieri li ferma per un normale controllo. I due ladri, che non hanno documenti di identità, declinano le proprie generalità: quello che durante il tragico tentativo di furto faceva il palo dichiara di essere Francesco De Marco, alias ‘U Bardasciu, e l’altro, quello che ha sparato, dice di chiamarsi Francesco Artuso, ma sono evidentemente nervosi, così i militari si insospettiscono e decidono di perquisirli. ‘’U Bardasciu non oppone resistenza e i Carabinieri gli trovano addosso la rivoltella, quindi viene subito ammanettato. All’altro, invece, non trovano niente di sospetto e non gli mettono i ferri, dandogli solo l’ordine di seguirli in caserma.
Giunti nei pressi della caserma, Artuso lancia la bicicletta che porta a mano fra le gambe del Carabiniere che gli sta vicino e se la da a gambe, rendendosi uccel di bosco. È evidente che ha qualcosa da nascondere, forse a partire dal nome che ha fornito, perché nello schedario non c’è nessun fascicolo intestato a Francesco Artuso.
‘U Bardasciu, subito interrogato, non vuole dare le esatte generalità del compagno, né sa dare sufficienti spiegazioni sul possesso ed asportazione del trapano e della rivoltella.
– A che ora sei uscito di casa? – gli chiede il Maresciallo, sospettando che i due erano fuori per fare un bait, un colpo.
– Verso le tre…
Allora i Carabinieri vanno a svegliare la moglie di De Marco che, ignara di tutto, lo smentisce perché riferisce che il marito è uscito di casa la sera precedente verso le 20,00 ed aggiunge di ignorare che possedesse una bicicletta. Tombola! Il furto ai danni della SIRTI è risolto. Ma intanto arriva la notizia della tragedia di Aprigliano e tutto cambia, adesso sospettano che ‘U Bardasciu vi sia implicato e l’interrogatorio si fa più duro, finché ammette:
– La sera del 14 mi venne a trovare tale Franciscuzzu, il quale mi invitò a recarmi con lui in Aprigliano per consumare un furto in una rivendita di privative. Egli aveva nascosto in una grotta due biciclette con le quali ci recammo in detto comune. Giunti colà procedemmo assieme allo scasso della porta, mercé trapano fornito dallo stesso Franciscuzzu e mentre egli accedette all’interno del negozio, io mi mantenni fuori, a distanza di circa sessanta metri, a fare da palo. Dopo vidi sopraggiungere un uomo ed una donna che affrontarono il mio compagno e fra di essi ne seguì una colluttazione. Intesi due colpi di rivoltella e subito montai in bicicletta per allontanarmi, mentre Franciscuzzu immediatamente dopo mi raggiungeva con la sua bicicletta… io non ho sparato alcun colpo, come si è potuto constatare, giacché la rivoltella trovatami addosso è completamente carica…
Quindi tutta la responsabilità, compreso il furto alla SIRTI, sarebbe del fantomatico Franciscuzzu ed a questo punto è necessario scoprire chi si nasconde dietro questo nome di fantasia. Siccome ‘U Bardasciu non apre bocca, allora bisogna spremere gli informatori e mettere sotto torchio tutti i ladri patentati operanti in città. Esclusi quelli in carcere, dalla strada ne manca solo uno ed è su questo che si concentrano le ricerche ed i sospetti, quantomeno confermati da alcune gole profonde: Carmine D’Eloise, figlio d’arte poiché suo padre, Alfredo, agli inizi del ‘900 fu condannato per vari reati nel primo maxiprocesso alla malavita cittadina. Ma per quanti sforzi si facciano, Carmine D’Eloise non si trova. Probabilmente si è rifugiato fuori città, così sussurra qualcuno, e allora le forze dell’ordine, per riuscire a conoscerne il nascondiglio, violano la corrispondenza in arrivo ai di lui amici e familiari, non che quella che da, da Cosenza, viene spedita a lui.
E i risultati arrivano: Carmine D’Eloise si nasconde a Nicastro, a casa di una certa Caterina Gallo, con la quale ha intrecciato una tresca.
Tra le tante lettere sequestrate, gli inquirenti si soffermano su di una in particolare, indirizzata alla zia Maria Simone (identificata per De Simone America), nella quale, tra le altre cose, scrive:
In quanto mi parlate, che se mi prendono debbo dare la colpa a quello, come lui l’ha data a me, non lo posso fare e non lo farei. Se son preso non posso evitare quello che mi spetta, perché c’è la sua chiamata di correo. Mi meraviglio come Ciccio abbia cantato un fatto simile. Fatemi sapere se ha detto tutto il fatto, ovvero solo il fatto delle biciclette, perché non credo mai che lui si dava la zappa fra i piedi. Saluto te, bacio fortemente la mia desolata Anna… è veramente morto quello? Domandate all’avvocato se io devo avanzare qualche memoriale al Giudice e se sono valevoli i miei certificati che ho di pazzo… dite sempre che sono partito il giorno 14 sera e basta.
Carmine D’Eloise è, dal suo punto di vista di malavitoso, giustamente sorpreso dal tradimento del compare, tant’è che giura che non lo tradirà mai, soprattutto perché ‘U Bardasciu è il suo capo. Ma Carmine, d’altra parte, non può sapere molte cose: per esempio che il suo capo lo ha tradito perché gli è stato chiaramente detto che contro loro due, sicuramente, si procederà, oltre che per il furto alla SIRTI e altri reati minori, per tentata rapina aggravata, omicidio aggravato per garantirsi l’impunità e che l’aggravante, se confermata, porterà l’assassino dritto dritto davanti al plotone d’esecuzione! E davanti a questa possibilità anche ai capi cominciano a tremare le ginocchia e ad accusare un certo sommovimento intestinale. E il borbottio intestinale si fa così insistente da consigliare a De Marco di evadere dal carcere, ma viene miracolosamente ripreso dopo due giorni.
Intanto D’Eloise, rintracciato, viene arrestato a Nicastro e riportato a Cosenza, dove viene subito interrogato, non prima di essere stato edotto sulla sua molto precaria condizione. Vedremo se manterrà fede al suo proposito di non tradire il capo:
– Il furto fu proposto da De Marco, il quale fornì le rivoltelle di cui andammo armati, nonché i cappelli con cui ci coprimmo e le biciclette con le quali facemmo il viaggio – l’esordio dice già tutto, poi continua attribuendo il furto alla Sirti al capo e, infine, racconta la varie fasi di quella tragica notte –. Durante le operazioni di scasso della rivendita, io la feci da palo, onde solo De Marco tentò il furto e consumò l’omicidio. Dopo i colpi di rivoltella fuggii, ma nella fuga caddi dalla bicicletta facendomi male al pollice della mano sinistra. Durante la fuga venni raggiunto da De Marco, il quale si fece consegnare la rivoltella ed il cappello, per cui io ne rimasi privo…
La stessa strategia del capo: scaricare tutto sull’altro. Ma se la cosa forse può funzionare per De Marco, per D’Eloise non funziona affatto perché ci sono dei dati inconfutabili: sul luogo del delitto è stato rinvenuto un fazzoletto sporco di sangue e quindi è in quel posto e non altrove che qualcuno si è tagliato. D’altra parte sbaglia anche mano in quanto lui dice di essersi ferito al pollice sinistro, mentre nel verbale dei Carabinieri che lo fermarono, risulta sanguinante dalla mano destra.
Durante la lunga istruzione, sia De Marco che D’Eloise mantengono rigorosamente il metodo di palleggiarsi la materiale esecuzione del furto delle biciclette, nonché della tentata rapina e dell’omicidio. In obbedienza a tal metodo, sfogano in denunzie verbali e scritte, l’uno contro l’altro, a getto continuo, né sono trascurati tentativi di calunnia.
E questi sarebbero gli uomini d’onore? Quaquaraqua!
Nonostante ciò, compiutasi la formale istruzione, il Giudice Istruttore, con sentenza 5 giugno 1939, rinvia entrambi al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di concorso in tentata rapina aggravato da minacce con arma per assicurarsi l’impunità, concorso in omicidio allo scopo di assicurarsi l’impunità, concorso in furto aggravato, più vari reati minori. Il tutto con l’aggravante per entrambi della recidiva.
Durante il dibattimento, che si svolge nelle tre udienze dal 6 all’8 novembre 1939, la difesa di D’Eloise, quello che appare più a rischio di pena di morte, solleva una serie di istanze tentando di distruggere l’efficacia degli elementi di prova o quanto meno di stornarli su De Marco. Per esempio, chiede di richiamare al banco dei testimoni la teste Virgina Perri perché, se durante le indagini aveva deposto di non essere in grado di riconoscere quegli che sparò, né colui che fece da palo perché il buio della notte non le permise di discernere, conseguentemente non può ora, a tanta distanza di tempo, procedendo a ricognizione degli imputati, dare alcun segno positivo. Poi insiste fino allo sfinimento nella richiesta di sottoporre a perizia psichiatrica il suo assistito.
Ma la Corte le respinge tutte con lunghe e argomentate motivazioni.
E se la sorte di D’Eloise è appesa ad un sottilissimo filo che può spezzarsi da un momento all’altro, nemmeno ‘U Bardasciu può dormire sonni tranquilli, specialmente quando la Corte chiarisce che ai fini pratici, cioè ai fini della pena, il concorso di reati di cui i prevenuti debbono rispondere, coll’aggravante della recidiva reiterata, comporta l’equiparazione delle loro posizioni, cioè non importa chi è entrato nella tabaccheria e chi ha fatto il palo; non importa chi ha sparato e chi no, le loro posizioni sono indissolubilmente legate. Quindi se D’Eloise beccherà la pena di morte, la beccherà anche Francesco De Marco ‘U Bardasciu.
Però la strada per il plotone d’esecuzione è ancora lunga perché la Corte non deve adagiarsi su ipotesi, se pur logiche, ed ha il dovere di dimostrare la fondata esattezza di tutto ciò che afferma; deve, soprattutto, vagliare la micidiale aggravante di avere ucciso per procurarsi l’impunità. Vediamo che ragionamento fa per stabilire se ci sono i presupposti per applicarla o meno:
Se D’Eloise avesse ucciso per impedire che la vittima, da cui era stato sorpreso, fosse un teste a carico, non comprendesi perché mai non abbia anche ucciso gli altri testimoni che, anch’essi accorsi sul posto, lo videro da vicino; né egli, che era stato altre volte in Aprigliano, poteva confidare di non essere stato da costoro riconosciuto. D’altronde non è da trascurare che egli quando sparò contro Tedesco, trovavasi attanagliato nelle di costui braccia ed ebbe a minacciare e colluttare per divincolarsi. Or se si tiene presente che Tedesco avea stretto colle sue mani come in una morsa il polsi di D’Eloise, se si tien conto che Tedesco era aitante della persona, giovane di 25 anni, animoso più che pel mestiere di macellaio, per la sicurezza che alle sue grida sarebbero prontamente accorsi congiunti ed amici, è logico pensare che D’Eloise, in quella congiuntura creata dal suo stesso maleficio, dovesse temere che non riuscendo a svincolarsi ed a fuggire, sarebbe stato da lì a poco accoppato dalla folla o quanto meno consegnato ai Carabinieri e però non v’ha nulla di assurdo pensando che abbia sparato ed ucciso, non per il fine della impunità, ma per quella istintiva autotutela della propria incolumità e libertà ch’è il supremo anelito anche di quei delinquenti incalliti cui è familiare l’agente di custodia e la segreta. Chi potrebbe dire se, nell’attimo che corse tra la sorpresa in flagranza, il fermo e gli spari, operò, per renderlo omicida, la fredda riflessione mirante all’impunità o l’istinto della libertà e l’insofferenza a subire battiture, fustigazioni e quant’altro la concitazione della mente potea fantasticare? Il dubbio è sufficiente per assolvere D’Eloise dell’aggravante che, affermata, apporterebbe a conseguenze irreparabili. Il legislatore che volle la pena di morte espressamente chiarì “ch’essa non deve andare eseguita se non quando le prove siano evidenti e la responsabilità del colpevole rigorosamente accertata”. Il Magistrato mancherebbe al suo dovere se, confidando che la sua sentenza, prima di essere eseguita, vada rigorosamente vagliata, irrogasse la pena suprema in casi non rigorosamente accertati. In concreto, per le ragioni avanti cennate, sorge gigante il dubbio che l’aggravante, cui è legata la pena di morte, sia insussistente.
Tutto chiaro. Il Giudice non può giudicare in base alle emozioni, ma vagliare scrupolosamente tutti gli elementi del processo, formare il proprio convincimento oltre ogni ragionevole dubbio ed applicare la Legge.
Poi c’è da stabilire se D’Eloise volle uccidere o se la sua azione andò oltre le sue intenzioni. Per la Corte si: l’arma adoperata, la parte colpita, la minima distanza tra la bocca dell’arma ed il bersaglio, l’interesse a liberarsi radicalmente dalla stretta di chi mirava a consegnarlo ai Carabinieri o al furore popolare, sono coefficienti inequivocabili della volontà omicida.
Fin qui la posizione di D’Eloise, ma sebbene, come ha chiarito la Corte, l’adesione del partecipe – sia pure solamente psichica – al fatto dell’autore metta allo spesso piano giuridico la responsabilità del partecipe e quella dell’autore, è tuttavia necessario stabilire esattamente le responsabilità di Francesco De Marco, perché anche per lui c’è in gioco il plotone d’esecuzione.
Relativamente alla responsabilità nel delitto di omicidio, non occorre una lunga dissertazione per affermarla: De Marco preconcertò con D’Eloise di andare a commettere il furto; cooperò alla effrazione della porta; nel momento culminante la fece da palo a mano armata anche egli di rivoltella, talché è da inferire che D’Eloise nel posto del delitto ed egli nel posto di vedetta aveano divisato, vuoi per la riuscita dell’impresa, vuoi per aiutarsi a vicenda, di far fuoco contro coloro che fossero insorti. Pertanto egli, a priori, diede all’eventuale azione che avrebbe svolto D’Eloise nella consumazione del delitto, quella stessa adesione psichica che D’Eloise dava a lui nell’eventuale azione che avrebbe svolto contro le reazioni dei terzi durante la sua funzione di palo.
Accertate anche le responsabilità di De Marco, la Corte usa le parole del Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco per arrivare a stabilire la misura della pena da irrogare agli imputati: “tutti coloro i quali contribuiscono alla produzione di un determinato evento, dannoso o pericoloso,, che hanno posto in essere una condizione perché l’evento si produca, sono concorrenti del reato allo stesso titolo senza distinzione. È questo il principio dell’uguaglianza della responsabilità e quindi, in massima, dell’uguaglianza della pena per tutti coloro che, comunque, partecipano al reato”.
Quindi ‘U Bardasciu deve rispondere anche dell’omicidio e quando è il momento di tirare le somme ed il Pubblico Ministero si alza in piedi per fare le sue richieste, nell’aula scende un silenzio irreale: pena di morte per Carmine D’Eloise e trent’anni di reclusione per Francesco De Marco.
Le difese dei due imputati non ci stanno: quella di De Marco ne chiede l’assoluzione per tutte le imputazioni, ritenendolo responsabile solo di concorso in tentato furto in danno di Rocco Cosentino, degradando così la rubrica; quella di D’Eolise chiede che gli venga accordata la diminuente del vizio di mente, l’esclusione della volontà omicida e dell’aggravante di avere ucciso per procurarsi l’impunità, nonché ritenere che il fatto in danno di Cosentino costituisca tentativo di furto, non già di rapina.
La Corte, che ha già chiarito la propria posizione su ogni singolo reato, comincia dalla pena per il tentativo di rapina e non di furto e parte con un preambolo molto duro: nell’applicare la pena, la Corte non può indulgere, tenuto conto della gravità del fatto, delle conseguenze di esso, dei pessimi precedenti degli imputati – specialisti in furto – i quali hanno commessa la rapina poco dopo che l’uno e l’altro aveano finito di espiare una grave pena (l’ennesima) per altri furti, onde crede opportuno (qui la Corte fa un calcolo molto complicato, che è superfluo riportare. Nda) condannarli a 15 anni di reclusione ciascuno, più pene accessorie. Per il furto ai danni della SIRTI la condanna è di 4 anni di reclusione ciascuno.
In merito all’omicidio la Corte scinde le posizioni dei due imputati e parte da Carmine D’Eloise, al quale ha già cancellato la micidiale aggravante contestatagli e continua nei suoi calcoli: 24 anni di reclusione che vanno raddoppiati per la recidiva specifica iterata. Quindi, sommando le pene per i tre reati principali (ci sarebbero anche quelli di porto abusivo di rivoltella, omessa denuncia dell’arma e false generalità all’Autorità Giudiziaria), il totale sarebbe di 67 anni di reclusione.
Per quanto riguarda Francesco De Marco che, come abbiamo appena visto, ha già totalizzato 19 anni di reclusione, per quanto riguarda l’omicidio, la Corte ritiene che, poiché la sua opera nell’esecuzione ebbe minima importanza, sia equo irrogargli una pena minore: 21 anni di reclusione, da raddoppiarsi per la recidiva. Quindi, in totale farebbero 61 anni.
Ma, considerato che la pena della reclusione non può superare i 30 anni, onde il cumulo delle pene, come sopra inflitte, deve ridursi in tal limite. 30 anni di reclusione.[1]
È l’8 novembre 1939 e la Seconda Guerra Mondiale semina già migliaia di morti in mezza Europa.
Non abbiamo notizia di ricorsi in Appello e per Cassazione.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.