Nel 1934, in contrada Campo di Fiumefreddo Bruzio, il fabbro ferraio Giuseppe Picciola concede in colonia al trentaquattrenne contadino Giuseppe Battaglia un fondo agricolo che comprende anche una casetta rurale ed una stalla, distante dalla casetta una ventina di metri.
Battaglia, mite e buon lavoratore ma di intelligenza poco sveglia, si accampa subito nella casetta con i suoi quattro figli e la giovane moglie Rosa De Luca, della quale non è affatto geloso sebbene non l’avesse trovata vergine e né tanto meno gli si mantenga fedele.
– Ma proprio a quella ti dovevi sposare? Non lo sai che…
– L’ho sposata lo stesso pur sapendo che ha avuto relazioni con altri – risponde seccamente a chi gli chiede spiegazioni.
– Non ti sei pentito? Quella ha preso la strada prima di sposarti e continua pure mò… ma almeno sei geloso?
– No, non mi sono pentito e non sono geloso! Anzi, proprio perché non sono geloso non ho mai avuto litigi con alcuno!
Rosa? Lei non nega di essersi data ad altri, ma se lo ha fatto è stato solo per miseria, durante la disoccupazione del marito, dovendo sostentare sé ed i figli.
Con un marito ed una moglie così per affittuari, nel cortile del fabbro ferraio, chiuso con un cancelletto di legno da una parte, dalle mura della chiesa di San Francesco d’Assisi e dalla casa di Giuseppe Porco da un altro, le visite cominciano ad aumentare.
Il 18 novembre 1935 nel cortile arriva il ventiseienne Luigi Petrungaro, nipote ex filia del fabbro ferraio Picciola. Luigi è un tipo particolare, vizioso e vagabondo come lo definisce suo padre. E un giovanotto così non può non essere conosciuto dalla Legge, che lo ha giudicato per lesioni personali, sparo di arma ed ubriachezza.
Luigi, il 18 novembre 1935 va dai nonni, che lo hanno cresciuto, per trovarvi rifugio dopo aver litigato col padre. I due vecchi, soli, lo accolgono a braccia aperte per trovare conforto alla loro solitudine, ma non sanno che la sventura sta per abbattersi su di loro.
Perché? Perché Luigi ben presto si innamora di Rosa e riesce ad imbastire con lei una relazione, rifiutando il matrimonio che i nonni gli hanno combinato e per di più si è convinto che anche suo nonno se la faccia con la ragazza, così comincia a elaborare idee strane, tanto strane che progetta di sbarazzarsi di suo nonno uccidendolo per restare l’unico a godere i favori di Rosa.
Ma Luigi, sebbene abbia dimestichezza con le armi ed il sangue, non è uomo da avere il coraggio di uccidere. Deve trovare qualcuno che lo faccia al suo posto. E lo trova!
– Giusè, ma che uomo sei? Mio nonno ti fa cornuto sotto i tuoi occhi e tu non dici niente?
Si, il prescelto è proprio il mite Giuseppe Battaglia, il marito di Rosa.
Luigi non ha il fegato di uccidere, ma è intelligente e si accorge che Battaglia è un po’ tonto e comincia a martellargli il cervello per portarlo ad odiare suo nonno e quindi ad ucciderlo. Ma Giuseppe Battaglia, per quanto tonto, non vuole cedere, lui non è geloso e se la moglie si vuole divertire non ci trova nulla di male. Allora Luigi capisce che deve cambiare strategia, bisogna passare alle minacce, minacce pesanti, minacce di morte.
– Se non ammazzi mio nonno, io ammazzerò te, tua moglie e mio nonno! – sono le parole che Luigi ripete a Giuseppe Battaglia per giorni e giorni. E l’indole mite, semplice, del contadino si piega al timore di perdere la propria vita. In fondo il vecchio lo ha fatto cornuto davanti ai suoi occhi!
È la sera del 16 febbraio 1936. Fa freddo. In casa di Giuseppe e Rosa ci sono Luigi e suo nonno, che sono andati a fare visita alla donna, malata a letto.
– Non vedi che sta male? Vai a chiamare il medico Bianchi – gli dice il vecchio.
– Si, vammi a chiamare il medico – lo prega sua moglie. Il contadino si mette addosso il mantello ed esce, seguito da Luigi.
– Stasera faremo la cosa…
– No… poi vado carcerato e non ci voglio andare…
– Stammi a sentire, tu non andrai carcerato perché accuseremo mio padre e carcerato ci andrà lui.
– Sicuro?
– Sicuro come la morte che ti darò, se non farai come ti dico! Vieni qui che ti dico come agiremo… – gli mette una mano sulle spalle e comincia a parlargli nell’orecchio, poi i due si lasciano e Giuseppe Battaglia va dal medico, ma torna quasi subito da solo e dice che non lo ha trovato.
– Vai di nuovo, adesso sarà tornato a casa – insiste Luigi e Battaglia esce di nuovo, ma questa volta passa più tempo del dovuto senza che torni.
– Lo vado a cercare io! – sbotta il vecchio, che esce di fretta, seguito da suo nipote Luigi.
Non lo trovano e tornano a casa; Luigi accelera il passo e precede di poco il nonno. Nascosto nei pressi della casa c’è Domenico Battaglia.
– È il momento, vai! – gli ordina perentoriamente. Il contadino tiene in mano il fucile come se ne saggiasse il peso, di nuovo incerto sull’opportunità di uccidere il vecchio perché se lo uccidesse, quanti ne dovrebbe uccidere per mondare il suo onore? Non dovrebbe uccidere anche Luigi? E non andrebbe in galera?
– N… No – balbetta, restituendogli il fucile. Luigi lo riprende in mano e lo punta alla testa del contadino.
– Vai o ti ammazzo qui perlamadonna! – poi si ferma ad aspettare il nonno.
Il vecchio, intanto, varca il cancello che dà accesso al cortile, accende la lampadina elettrica portatile e si dirige anche lui verso casa di Rosina; vede il nipote che lo aspetta, ma non fa in tempo nemmeno ad arrivare alla porta che una fucilata lo colpisce alle spalle e cade a terra, gravemente ferito.
Giuseppe Battaglia, dopo avere esploso la fucilata, corre nella stalla a nascondere il fucile e con calma fa un largo giro prima di rientrare a casa dove, nel frattempo, Luigi e il vicino Giuseppe Porco hanno soccorso il vecchio.
– Che è successo? Ho sentito un colpo… – fa, fingendosi ignaro di tutto.
– Hanno sparato a nonno! Corri, vai a chiamare il medico!
– Ma non l’ho trovato…
– Trovalo! Sta morendo!
Così Giuseppe Battaglia torna indietro e questa volta il medico lo trova.
– Cosa? Hanno sparato al vecchio Picciola? E chi può essere stato?
– Si suspica (si sospetta. Nda) che siano nella stessa parentela perché tanto il genero che il nipote gliel’avevano promesso… – risponde, rischiando di inguaiare Luigi, ma si sa che Battaglia è un po’ tonto!
Tonto? Mica tanto perché è evidente che la sua risposta mira ad allontanare da sé eventuali sospetti e creare, conformemente a quanto erasi obbligato con il suo mandante, un’aura sinistra a carico del di costui padre, agevolando con ciò la credibilità di quella versione che, frattanto, avrebbe dato Luigi circa l’autore del delitto, senza comprometterlo sebbene lo avesse nominato, essendo intuitivo che l’accusa, venuta da più parti a carico del padre di Luigi, avrebbe screditato qualsiasi altra ipotesi, specie nei riguardi di Luigi, cui sarebbe riuscito assai facile far credere alla propria innocenza per il fatto che era in compagnia di suo nonno all’atto dello sparo.
Battaglia, dopo essere stato dal medico, secondo il piano prestabilito va dai Carabinieri a denunciare l’accaduto e i militari, subito accorsi, interrogano il ferito nel suo letto. Dopo aver raccontato come si sono svolti i fatti, il Maresciallo gli chiede se nutra dei sospetti su qualcuno:
– Occorre ricercare il feritore nelle persone a me vicine… e, per quanto possa ripugnarmi, penso che mi abbia sparato il colono Battaglia al quale, su sua richiesta ho dato una carica di polvere nera… e sospetto anche mio nipote Luigi col quale ho avuto delle parole dettegli per il suo bene… ma potrebbe essere stato anche mio genero, il padre di Luigi, col quale non vado d’accordo…
Poi il vecchio si chiude nel silenzio per alcune ore, ma quando gli viene il singhiozzo e intuendo che la sua fine è prossima, vuole completare la sua denuncia e dice davanti ai presenti:
– Pensando e ripensando a certe cose, la mia uccisione dev’essere stata concertata tra mio nipote e Battaglia, che sono stati insieme nel bosco… chissà mio nipote che cosa ha combinato con quel ciuatu… (idiota. Nda) – poi guarda verso suo nipote, immobile e bianco in viso ai piedi del letto e continua – Non so come mai questo, che ha sempre camminato al mio fianco, oggi invece ha camminato tenendosi avanti e lontano da me… vattene di qua, cacciatelo via ché non voglio vederlo!
Un colpo tremendo al sofisticato piano di Luigi Petrungaro. Ma, si sa, il delitto perfetto non esiste perché qualche dettaglio tradisce sempre.
Poi le condizioni del vecchio peggiorano a vista d’occhio e poco tempo dopo, purtroppo, muore.
I Carabinieri intanto perquisiscono i dintorni e trovano nella stalla il fucile di Battaglia che presenta evidenti segni di recentissimo sparo e mettono in stato di fermo il contadino. Poi, ancora ignari delle parole ultime accuse del vecchio, interrogano Luigi Petrungaro:
– Quando sentii il colpo, per la paura sono caduto a terra e non ho visto niente, poi mi sono ripreso e mi diedi a gridare aiuto…
– Hai sospetti su qualcuno? – gli chiede il Maresciallo.
– Purtroppo su mio padre… in precedenza aveva minacciato di sopprimere me e mio nonno…
È la versione già pensata e concordata con Giuseppe Battaglia: accusare suo padre per garantirsi il silenzio del complice, consapevole della satanica calunnia.
Il mattino dopo verso le 11,30, quando ancora Battaglia si trincerava nelle affermazioni della sua innocenza, i Carabinieri interrogano nuovamente Luigi Petrungaro il quale continua ad insistere nell’accusare suo padre e la conseguenza è che il poveretto viene arrestato, ma deve essere subito rilasciato perché ha un alibi di ferro.
Ma nella mente semplice di Giuseppe Battaglia qualcosa sta accadendo e nello stesso pomeriggio chiede di essere interrogato. Sono le 17,45 del 17 febbraio 1936 quando il Maresciallo, alla presenza di quattro gentiluomini, fra cui un avvocato, un geometra ed un applicato di segreteria, verbalizza le drammatiche parole:
– Confesso con tutta coscienza di avere tirato io la fucilata che ha ucciso Giuseppe Picciola. Mi sono servito del fucile che è stato sequestrato. Confesso però di avere agito dietro suggerimento e minacce di Luigi Petrungaro, nipote dell’ucciso. Tale delitto ha un antefatto che mi accingo a spiegare: dieci giorni avanti, mia moglie ebbe a comunicarmi che dopo aver ella confabulato nei pressi della stalla con Picciola, quando rientrò a casa vi irruppe Luigi Petrungaro il quale, affermando che sua nonna, accortasi del colloquio, gli aveva detto: “vai a prendere a calci a tutti e due”, le impose sotto minaccia di morte ed a mano armata di rivoltella di dirgli se tra lei e l’ucciso fossero corsi rapporti intimi, onde ella, negando ogni relazione, gli confidò che nel novembre dell’anno passato tentò di possederla, ma non soggiacque perché si mise a gridare aiuto, graffiandosi nel tempo stesso la faccia – si ferma a riprendere fiato in un silenzio irreale, guarda i presenti con le lacrime che cominciano a rigargli il volto e continua – sette giorni addietro Luigi mi consigliò di uccidere suo nonno, sotto minaccia ch’egli in caso inverso avrebbe ucciso me, mia moglie e suo nonno… mi diceva continuamente che mia moglie aveva rapporti con Picciola e mi suggeriva di ucciderlo con la scure… io però gli rispondevo che mi rifiutavo perché non ne avevo il coraggio ma, malgrado ciò, Luigi mi ha giornalmente spinto al delitto… anche ieri… anche ieri, dopo aver mangiato in casa mia, quando il vecchio se ne fu andato, Luigi mi ripeté di sopprimere il nonno dicendomi che qualora non avessi avuto il coraggio di farlo con la scure, egli mi avrebbe caricato il mio fucile e all’uopo mi chiese dove lo tenessi… verso le 14,30 mi comunicò di avere caricato il fucile e mi invitò ad uccidere il vecchio nella stessa sera… verso le 17,30, incontratomi nel cortile, mi disse: “o lo ammazzi stasera oppure ucciderò tutti e tre!”. Poco dopo, siccome mia moglie non stava bene ed in casa mia si trovavano i coniugi Picciola, fui invitato dal vecchio di andare a chiamare il dottore. Prima di andare provvidi a rilevare il fucile dalla stalla e a nasconderlo nel cortile, vicino ad un forno. Feci ritorno a casa e nel passare ripresi il fucile che portai nuovamente nella stalla perché non mi sentivo la forza di compiere il misfatto. Inviato daccapo a cercare il dottore, ritornai in paese verso le 20,30 e, incontratolo, gli comunicai la malattia di mia moglie. Verso le 20,30 mi restituii a casa ma, giunto nel cortile, incontrai Luigi che mi ripetette le testuali parole: “o lo ammazzi stasera o io ammazzo voi!”, dopo di che egli si diresse verso la mia abitazione, ove si trovavano ad attendere i due vecchi. Io, ossessionato dalle minacce, ritornai a prelevare l’arma e mi recai in un vano di porta murata; qui sono stato in agguato per circa tre quarti d’ora, poscia ho visto venire verso la porta d’uscita il vecchio seguito dal nipote il quale, scortomi… – si ferma di nuovo per asciugarsi il viso col dorso delle mani – si è furtivamente avvicinato a me ripetendomi: “bada che non deve passare stasera, caso contrario vi ammazzo tutti e tre!”. Dopo circa un quarto d’ora sono ritornati. Luigi ha imboccato per primo il cancello, seguito dal nonno, il quale ha acceso una lampadina tascabile. Non appena il vecchio si è trovato ad una distanza di circa cinque o sei metri da me, ho fatto fuoco e subito, approfittando dell’oscurità, ho oltrepassato il vecchio, già caduto a terra, e Luigi e sono corso a riporre il fucile nella stalla. Dopo, girando dietro la mia abitazione, attraversato il terreno di Giuseppe Porco, mi sono portato all’ingresso del cortile, dove già erano accorse persone…
Immediatamente due Carabinieri vanno a prelevare Luigi Petrungaro e lo mettono sotto torchio, ma lui è un duro e non arretra di un millimetro dalla sua linea e non arretra nemmeno durante il confronto a cui viene sottoposto con il suo complice e accusatore. Davanti a questo stato di cose, Il Maresciallo pensa di tendere un tranello a Petrungaro, così fa rinchiudere i due in camere di sicurezza adiacenti, sicuro che avrebbero parlato appena si fossero convinti che nessuno potesse ascoltarli. Invece, nascosti ai lati delle celle, ad ascoltarli ci sono tre Carabinieri. L’espediente riesce a meraviglia perché Luigi Petrungaro parla:
– Hai fatto male a confessare, rimangiati tutto così ci salviamo tutti e due e stai tranquillo che l’avvocato te lo pago io e aiuto anche la tua famiglia!
Certo, in queste condizioni le minacce non servono più, meglio allettarlo, magari riuscirà nell’intento, l’illuso.
Passa la notte e tutta la mattina del 18 febbraio, poi alle 12,30 il Maresciallo fa accomodare davanti alla sua scrivania Luigi Petrungaro e cerca, prima di tirare fuori l’asso dalla manica, di convincerlo a parlare, ma riesce solo ad ottenere ammissioni quasi insignificanti:
– È vero che una decina di giorni fa ebbi dei piccoli dissidi con mio nonno, ma non ho mai consigliato Battaglia di ucciderlo!
– E di Rosa che mi dici? Eri geloso di tuo nonno? L’hai minacciata?
– Le chiesi se avesse relazioni con mio nonno, ma non l’ho minacciata per estorcerle la confessione.
– Quindi continui a sostenere di non avere avuto parte nell’omicidio?
– Assolutamente no! L’unico che può avere avuto interesse ad ucciderlo è mio padre!
– Va bene… però c’è qualcosa che mi suona strano perché io so che stanotte, pensando che nessuno ti ascoltasse, hai parlato con Battaglia e invece ti ascoltavano tre Carabinieri e mi hanno detto che gli hai proposto di ritrattare così vi salvereste tutti e due… ora, se sei davvero innocente, che bisogno hai della ritrattazione di Battaglia?
Luigi sbianca in volto, ma è pronto a dare una risposta:
– Si, è vero, ho parlato con Battaglia e gli ho chiesto di ritrattare, ma l’ho fatto solo per esimermi dalle seccature conseguenti all’accusa…
Un vero duro, ma Battaglia continua ad accusarlo e gli inquirenti si convincono che dice la verità, quindi concludono le indagini rinviando al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Giuseppe Battaglia con l’accusa di omicidio premeditato e porto abusivo di fucile, mentre Luigi Petrungaro per concorso in omicidio premeditato per avere determinato Battaglia a commetterlo, con l’aggravante della parentela.
Il dibattimento comincia con le quattro udienze dal 14 al 17 maggio 1937, ma viene interrotto perché la Corte accoglie l’istanza della difesa di Giuseppe Battaglia con la quale chiede di sottoporlo a perizia psichiatrica, al fine di accertarne la capacità di intendere e di volere. A questa richiesta si aggiunge quella identica della difesa di Luigi Petrungaro perché, sostiene, è lui il vero succube, ma la Corte la respinge come pretestuosa.
Giuseppe Battaglia viene internato nel manicomio di Napoli, dove il professor Cesare Colucci e il dottor Mario De Mennato lo tengono in osservazione per circa tre mesi, concludendo che al momento del delitto si trovava in stato di semi infermità mentale in quanto si tratta di un soggetto povero di spirito per la sua personalità (riferita alle funzioni intellettuali, affetti, sentimentalità, carattere, coscienza) ridotta in limiti inferiori al suo livello di contadino ignorante. Ma nonostante egli sia stato dichiarato non pericoloso, devesi ordinarne, dopo espiata la pena, il ricovero in una casa di cura o di custodia per un tempo non inferiore a tre anni.
Il dibattimento può riprendere e la Corte, per quanto riguarda la posizione di Giuseppe Battaglia, esclude l’aggravante della premeditazione sia perché la dottrina giuridica nega la compatibilità della premeditazione con la semi infermità mentale, sia perché in punto di fatto essa è insussistente in quanto non avrebbe potuto premeditare il delitto non essendo egli suscettibile a considerazioni ed a sensazioni di onore.
Circa la responsabilità di Luigi Petrungaro, la Corte la ritiene certa per la precisa chiamata in correità, ma anche perché Giuseppe Battaglia, a conforto della sua accusa di essere stato minacciato di morte a mano armata di rivoltella se non avesse ucciso il vecchio, ne svela il nascondiglio e la fa cadere in giudiziale sequestro; inoltre, se non bastasse, i pallettoni, tipo lupari, rinvenuti nel cadavere di Giuseppe Picciola sono identici a quelli sequestrati nella casa paterna di Luigi e, infine, ci sono le parole pronunciate dal vecchio in punto di morte. Nonostante ciò il Collegio Giudicante nutre dubbi sull’aggravante della premeditazione perché dalle dichiarazioni di Battaglia non emerge chiaramente che la preparazione del delitto sia stata meditata e organizzata secondo i criteri che la legge richiede ma, al contrario, sia stata decisa estemporaneamente solo poche ore prima del fatto.
In concreto Luigi Petrungaro, nella sua foia di concupiscenza, non ancora saziata, e nel morboso bisogno del possesso incontrastato dell’adultera, pose tra lui e le sue mire la vita del nonno (perché concorrente in amore) e la libertà del padre. La stessa eccezionalità del delitto (l’uccisione dell’uomo che gli era nonno, maestro d’arte ed ospite generoso!) con la concomitanza di una predisposta calunnia a danno dell’innocente padre, il quale avrebbe potuto correre rischi gravissimi, fa pensare che egli dovette agire nell’infuriare di una torbida passione, per la quale si indusse al parricidio. Egli volle disfarsi del nonno prima che questi lo cacciasse di casa, come gli era facile prevedere perché mal sopportava che egli trascurasse l’arte per correre dietro alla De Luca e, otto giorni prima del delitto gli disse: “Tuo padre ha fatto bene a cacciarti di casa perché sei scostumato ed indecente”.
La Corte conclude che non ha elementi precisi per escludere che Petrungaro, vero figlio delle tenebre, abbia premeditato il delitto. Su ciò non può fare che congetture o elevare dubbi, ma basta il solo dubbio per dovere assolvere dall’aggravante, che ha conseguenze incalcolabili.
La pena di morte, richiesta dal Pubblico Ministero, è umanamente scongiurata.
Si può passare ad emettere la sentenza, senza dimenticare che le parti civili, cioè la vedova ed i due figli della vittima, chiedono un risarcimento simbolico, rispettivamente di L. 10, L. 5 e L. 1, ma invocano che la Giustizia punitrice raggiunga e colpisca anche il loro indegno nipote.
La Corte dichiara Luigi Petrungaro e Giuseppe Battaglia colpevoli di concorso in omicidio volontario in pregiudizio di Giuseppe Picciola, ascendente del primo, escludendo per entrambi l’aggravante della premeditazione e col beneficio del vizio parziale di mente per il secondo. Condanna Luigi Petrungaro alla pena dell’ergastolo e Giuseppe Battaglia ad anni quindici di reclusione, di cui dichiara condonati anni quattro per effetto del R.D. amnistia 15/2/937 n° 77. Dispone che l’estratto della presente sentenza sia pubblicata per una volta sulla “Cronaca di Calabria” e sulla “Calabria Fascista”. Ordina che il Battaglia, dopo l’espiazione della pena, sia ricoverato in una casa di cura e custodia.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.