La mattina del 16 febbraio 1937 fa freddo a Laino Bruzio. L’anziano Pasquale Ieno fa colazione con sua moglie Domenica Palazzo, poi sbircia da dietro i vetri della finestra di casa in contrada Timpa Coperta, una casetta colonica isolata, e le dice:
– Beh! È ora di andare, il sole si sta alzando – poi si butta addosso il mantello, mette in testa il cappello floscio, prende la zappa con qualche altro attrezzo e apre la porta – Mi raccomando, non uscire che fa freddo, ci vediamo all’imbrunire – termina uscendo per andare a zappare in un piccolo fondo di sua proprietà.
Puntuale come un orologio svizzero, Pasquale Ieno torna a casa. È stanco, gli anni ormai gli pesano. Apre la porta e chiama la moglie:
– Domenica! Fa freddo, non l’hai acceso il fuoco? Non si sente nemmeno odore di cucinato, ma che hai fatto tutt’oggi? – Nessuna risposta. Che si sia sentita male? Pasquale posa gli attrezzi, il sacco con la verdura ed entra nella stanzetta che usano come cucina. Una bestemmia, poi sente le forze che gli mancano e fa appena in tempo a poggiarsi al tavolino perché non può credere a quello che vede con i propri occhi: Domenica è a terra, immersa in un lago di sangue, con il cranio fracassato e un’orrenda ferita alla gola. A terra, poco più in là, c’è una scure sporca di sangue. Alcune casse sono aperte e il contenuto sparso sul pavimento. Istintivamente Pasquale guarda verso la porticina che dà accesso ad una piccola cantina: è evidentemente scassinata. Tira un lungo respiro, si fa forza, accende la lanterna e, passando accanto al cadavere della moglie, scende in cantina e bestemmia di nuovo: qualcuno, oltre ad avergli orrendamente ucciso la moglie, gli ha anche rubato tutti i salami e le bottiglie di vino che aveva conservato.
Pasquale piange e bestemmia. Bestemmia e piange mentre al buio va in paese per avvisare i Carabinieri dell’accaduto.
– Avete sospetti, inimicizia con qualcuno?
– In verità c’è un vicino col quale da qualche anno esistono dei rancori a causa dell’esercizio di un preteso diritto di passaggio…
– Come si chiama?
– Gennaro Mecca…
Con una breve indagine, il Maresciallo si convince che su Gennaro Mecca, sua moglie e sua figlia ci sono dei gravi indizi di colpevolezza e li arresta, ma, come è ovvio, bisogna trovare i riscontri perché gli indizi diventino prove, così le indagini vengono allargate anche ad alcuni pregiudicati del posto, ma non si trova niente di serio. Però c’è qualcosa di strano perché uno di questi pregiudicati, Giovanni De Franco, non si fa più vedere in giro dal giorno dopo il barbaro assassinio, così lo cercano anche nei paesi vicini e a Mormanno i militari scoprono qualcosa di veramente interessante: il giorno dopo il fatto De Franco ha venduto ad un commerciante una discreta quantità di salame e alcune bottiglie di vino, mercanzia che viene immediatamente sequestrata e mostrata al vecchio Pasquale Ieno:
– Si, è tutta roba mia…
Tombola!
Dopo qualche giorno di serrate ricerche, Giovanni De Franco viene arrestato. Posto di fronte all’evidenza, non può che ammettere:
– Si, l’ho ammazzata io, ma è stato Mecca ad organizzare tutto. Mi ha accompagnato sul luogo e mi ha consigliato a rubare e ad uccidere sotto il miraggio di un ricco bottino…
Poche parole che fanno precipitare in un baratro Gennaro Mecca ed i suoi familiari. È inutile urlare al mondo la propria innocenza, nessuno gli crede. E precipita ancora più a fondo quando De Franco ripete la stessa storia anche davanti al Giudice Istruttore, una storia che potrebbe portarli entrambi alla pena di morte.
Ma qualche tempo dopo De Franco modifica la sua confessione:
– Ho fatto tutto da solo, Mecca non c’entra niente…
– Quindi, se Mecca non c’entra, perché hai ammazzato quella povera vecchia?
– L’ho ammazzata sotto la spinta del cattivo trattamento usatomi dalla donna alla quale, essendo affamato, invano avevo chiesto pane o lavoro…
La nuova versione è la fine di un incubo per Gennaro Mecca ed i suoi familiari i quali sono riusciti a provare anche per altra via la propria innocenza.
Chiusa l’istruttoria i Mecca vengono prosciolti con formula piena, mentre Giovanni De Franco viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio aggravato, commesso per furto.
Iniziato il dibattimento, De Franco conferma di avere ucciso Domenica Palazzo per il rifiuto a dargli del pane o del lavoro e aggiunge:
– Mi minacciò, invitandomi in malo modo ad allontanarmi… l’idea del furto mi venne dopo, visto che la vecchia era ormai morta e sotto lo stimolo del lungo digiuno…
– Ma vi rendete conto che c’è troppa sproporzione tra quanto raccontate e quanto avete fatto?
– Signor Giudice, io non sto bene con la testa… sono stato ricoverato all’ospedale civile di Potenza per tifo e da quando sono stato dimesso mi sento la mente sconvolta…
La Corte, visto che non c’è alcun dubbio sul fatto che Giovanni De Franco sia l’autore dell’orrendo delitto, per arrivare ad emettere la sentenza deve risolvere un problema: decidere quale delle due versioni debba essere accettata: se la prima (omicidio a scopo di furto. Nda), che menerebbe diritto alla pena capitale, o la seconda, che potrebbe consentire una diversa valutazione giuridica del fosco episodio di sangue.
Un segnale lo da il Pubblico Ministero, il quale, nella sua requisitoria, dichiara di accettare come buona la seconda versione dei fatti, seguendo l’imputato nelle attenuazioni che egli ha creduto di dare alla sua azione delittuosa, e quindi ha concluso per la pena dell’ergastolo, sembrandogli evidente che, se non sia da applicare la sanzione più grave della pena capitale, non si possa in ogni caso superare, per quello che lo stesso De Franco ammette, l’ipotesi dell’omicidio commesso per futili motivi per la palese sproporzione tra il movente accampato e la brutale attività criminosa che ne è derivata.
La difesa, da parte sua, il segnale lo da spingendosi oltre perché sostiene che, avendo escluso l’aggravante con la quale De Franco si è presentato davanti alla Corte, si debba senz’altro scendere all’ipotesi di omicidio doloso semplice per non avere, il Pubblico Ministero, contestato l’aggravante dei futili motivi e dei motivi abietti. In più, la difesa chiede che venga concesso all’imputato il beneficio del vizio parziale di mente in dipendenza di una forma di tifo addominale da costui sofferto tra l’aprile e il luglio del 1936, dalla quale sarebbe scaturito uno squilibrio psichico.
Per la Corte la richiesta della difesa di degradare il reato ad omicidio semplice è irricevibile perché in primo luogo a De Franco non si fa carico di alcuna aggravante, la quale viene anzi eliminata per evitargli la pena capitale, facendo degradare il delitto in una figura più lieve già compresa, nei suoi elementi sostanziali, in quella maggiore e più grave; in secondo luogo perché la cancellazione dell’aggravante è stata richiesta dal Pubblico Ministero per creare una situazione di favore e non di danno.
Anche per quanto riguarda la richiesta del vizio parziale di mente la Corte ritiene di non poterla accogliere perché nella relazione medica inviata dall’ospedale di Potenza non si accenna a perturbamenti psichici, neppure di carattere transitorio, né durante il ricovero dal 28 aprile al 14 luglio 1936, né sotto forma di postumi. Nessun segno di minorate condizioni psichiche è stato riscontrato durante la detenzione, eccezion fatta per alcuni episodi di disturbo della parola, tremore degli arti superiori, fisionomia rigida. Addirittura, per un eccesso di zelo, alcuni medici che compongono la giuria popolare hanno tenuto sotto controllo il comportamento in aula dell’imputato, senza riscontrare nulla di anormale nel suo comportamento.
Se le richieste della difesa sono irricevibili, quella del Pubblico Ministero non può essere respinta in linea di principio e la Corte, presa dallo stesso travaglio che ha agitato la coscienza del Pubblico Ministero di fronte alla pena capitale, la accoglie anche nel merito, ma si dilunga in una dura reprimenda dell’imputato: certo la personalità del reo, desunta dai suoi precedenti penali, segnatamente in materia di furto, poco si raccomanda alla considerazione del Collegio, onde potrebbe forse apparire anche ingenuo adagiarsi, senza alcuna valutazione razionale del truce delitto, sulla tardiva versione che ne da De Franco. Se non che, ove si ponga mente che questa valutazione si dovrebbe in definitiva risolvere in uno scandaglio dell’animo umano (la intenzione di rubare fu preordinata o sorse dopo il fatto di sangue?), una certa esitazione non sembrerà esagerata di fronte alla posta in giuoco. De Franco ha ucciso con inaudita brutalità, tempestando di colpi di scure alla testa la disgraziata vecchia perché gli aveva negato pane e lavoro; le minacce della vittima, povero cadente rudere umano, sorpreso nella casetta mentre attendeva alla confezione del pane, sono il parto della fantasia del feroce delinquente, giovane vigoroso e forte che nulla aveva da temere dal soggetto che gli stava di fronte, così come parto di fantasia sono gli accampati digiuni, risultando che De Franco convive col padre, il quale provvedeva al suo quotidiano sostentamento. E se è così, scaturisce evidente la circostanza dei motivi futili e abietti per la enorme sproporzione tra il fatto e la causa determinante, innestandosi il fosco delitto ad uno stimolo in sé stesso lieve e trascurabile anche da parte di delinquenti incalliti, che non avrebbero agito con tanta perversità come quella di cui ha dato prova De Franco nel decidersi alla strage e nel modo di eseguirla. Egli, profittando del precedente arresto del Mecca, se lo associò nel delitto, ma lo scrupolo e il rimorso lo colsero e sentì il bisogno di dire la verità, non senza peraltro modificare la versione del fatto, attenuando la misura della propria colpevolezza.
Adesso lo scopo della reprimenda è chiaro: se da un lato viene tolta l’aggravante dell’omicidio a scopo di furto in base alla quale la pena prevista è quella capitale, dall’altro la Corte lo grava di quella dei motivi futili e abietti, che comporta l’ergastolo.
La Corte si dichiara convinta che il delitto non sia stato il prodotto di una qualsiasi anomalia psichica, ma la manifestazione di una costituzione immorale dell’autore di esso e di sue particolari predisposizioni antisociali, onde se il De Franco può sottrarsi alla pena di morte per l’imputazione che gli veniva contestata, non può in ogni caso sfuggire a quella dell’ergastolo con tutte le conseguenze di legge che vi sono inerenti.
Il 14 novembre 1938 la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Giovanni De Franco.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
N.B. Il Comune di Laino Bruzio nacque l’11 marzo 1928 dall’unione dei Comuni di Laino Borgo e Laino Castello e fu soppresso il 19 ottobre 1947 per ritornare ai due comuni precedenti (NdA).