QUESTE SONO LE TRENTAMILA LIRE

Altomonte, ore 19,00 di uno degli ultimi giorni di maggio 1931.

Un giovanotto si aggira con aria furtiva intorno alla casa di Giuseppe Costante. È sicuro che i proprietari non sono in casa anche se la porta è socchiusa; quando non vede più nessuno in giro, con quattro salti arriva davanti alla porta, la apre, entra e si chiude dentro.

– Maria… Maria… – sussurra – sono io…

Maria Rosaria Costante sobbalza, non si aspettava la visita di Alfredo Magno, con il quale amoreggia di nascosto da qualche mese, ed è sorpresa che sia stato capace di tanta sfrontata audacia.

– Che vuoi? Malanova tua, vuoi farci ammazzare? Vattene!

– No Maria, non me ne vado, stasera devi essere mia… non preoccuparti, poi facciamo le carte e ci sposiamo… – cerca di convincerla mentre le sia avvicina sempre di più.

– No! Vattene!

– Dai… prima o poi lo dovremo fare visto che ci sposeremo, e allora meglio farlo adesso… vieni qui e abbracciami…

Dopo un breve tira e molla Maria Rosaria cede e i due si abbandonano all’amore.

Nelle notti successive Alfredo vorrebbe che Maria uscisse per godere i suoi amplessi e solo ottiene appagato il suo desiderio nella notte del 3 giugno.

Ma c’è un problema. Nello stesso letto di Maria Rosaria dorme la sorellina Angelina la quale, appena si accorge dell’assenza della sorella, si alza e lo va a dire ai genitori che dormono al piano superiore.

Giuseppe Costante e sua moglie Filomena Santoro immediatamente si vestono e cominciano a girare per il paese alla ricerca della figlia, ma la ragazza sembra essersi volatilizzata. Così, avviliti e preoccupati, si avviano verso casa. Lungo la strada incontrano il sarto Giuseppe Campolongo e gli chiedono se l’abbia vista.

So dove si trova, aspettate qui ché ve la riporto.

Così accade, perché poco dopo il sarto compare con Maria Rosaria in lacrime.

– Perdono… perdono padre mio… – gli dice buttandosi in ginocchio – ho ceduto alle promesse di Alfredo Magno, che mi ha sedotta.

Il padre è furioso. Il primo istinto è di cacciare di casa la figlia disonorata ma poi, per i suggerimenti avuti dalla moglie, decide di querelare Alfredo, sperando così di indurre costui a legalizzare la posizione della figlia con un prossimo matrimonio. La mattina successiva, infatti, Domenico Costante va dall’avvocato e si fa scrivere la querela, poi torna a casa. Dai Carabinieri ci andrà nel pomeriggio, così ha deciso. Ma a casa trova Alfredo che, mogio mogio, gli promette solennemente di sposare prima possibile Maria Rosaria. Anzi, per dimostrare che non è un seduttore impenitente, propone ed ottiene di portare con sé la ragazza e di vivere more uxorio in attesa delle nozze. Prende anche in fitto un locale dove sistema qualche suppellettile e, se mai ci fosse bisogno di precisarlo, continua ad avere rapporti carnali con la futura sposa.

L’idillio, però, svanisce nel giro di qualche settimana perché, a poco a poco, Alfredo comincia ad allontanarsi e a riprendere le vecchie relazioni con la sua amante Mariantonia. Poi il colpo di grazia:

– Non so se l’hai capito, ma io non ti sposerò mai perché sposerò una giovinetta di San Donato Ninea  che mi porta una dote di trentamila lire, oltre lire mille di corredo!

Ma non c’è solo questo. Alfredo comincia a dire in paese che è stato un capriccio l’aver posseduto Maria Rosaria e che non l’avrebbe sposata anche a costo di subire una condanna.

La voce, ovviamente, arriva all’orecchio del padre della ragazza, il quale, per quieto vivere, cerca a mezzo di estranei di persuadere i genitori del giovanotto e anche costui a porre riparo all’offesa arrecata all’onor suo e della famiglia. I tentativi, però, non riescono e quando Domenico Costante, la mattina del 27 giugno 1931, viene avvisato da sua moglie che Alfredo davvero avrebbe sposato un’altra donna, ha la precisa visione della illegittima relazione creatasi dal Magno e, preso dall’ira per l’offesa ricevuta, decide di trarne vendetta.

Quando rientra dal lavoro, Domenico è nervoso e quasi disinteressato a ciò che avviene accanto a lui. Preoccupata da questo atteggiamento, sua moglie cerca di scuoterlo e lo convince a recarsi ad un suo podere per completare la mietitura del grano. Esce di casa e decide di andare alla stalla, che è proprio di fronte alla casa dell’amante di Alfredo, per prendere l’asino.

Manco a farlo apposta, sulla soglia della porta di Mariantonia c’è Alfredo il quale, nel vederlo, comincia a prenderlo in giro:

Ancora deve andare a coricarsi questo ragapiedi! – e giù una risata sguaiata.

Domenico non risponde, rinuncia a prendere l’asino, gira i tacchi e se ne va al podere. Mentre taglia il grano con la falce comincia  a rimuginare sull’onore perduto e di minuto in minuto la sua rabbia cresce. Vorrebbe che al posto delle spighe ci fosse il collo di Alfredo, pronto per essere reciso con un colpo di falce. Il sudore gli cola lungo il corpo mentre sbuffa, poi si rialza, tira un lungo respiro, butta a terra la falce ed entra nella casetta colonica. Il primo sguardo, nella penombra, è verso il muro dove tiene appesa la sua doppietta. L’afferra, fa scattare il meccanismo che sblocca le canne, tira fuori le due cartucce, le guarda e sorride. Poi richiude l’arma, se la mette in spalla e torna verso il paese.

“Vediamo se è ancora a casa della sua amante” dice tra sé e sé, dirigendosi verso la casa di Mariantonia. Si, le risate che vengono dall’interno dicono che Alfredo è ancora lì, allora Domenico, sapendo che il suo nemico per tornare a casa deve passare davanti a casa sua, si apposta nella loggetta di una casa disabitata attigua alla propria e aspetta, aspetta pazientemente.

Ormai è notte fonda, in giro non c’è più nessuno e il silenzio quasi assoluto è finalmente rotto dal rumore di passi che si avvicinano.

“Eccolo”, pensa mentre arma i cani della doppietta e punta l’arma verso la strada.

“Si, è lui”. Prende la mira. “Adesso! No, non merita di essere colpito davanti, ma alle spalle come i traditori”.

La detonazione fa saltare dal letto tutto il vicinato. Domenico corre verso la sua vittima per assestargli il colpo di grazia, se necessario, poi vede che non si muove e vede il sangue zampillare dalle ferite. Sorride e poi, mentre sputa ai piedi di Alfredo, dice:

Queste sono le trentamila lire!

A qualche decina di metri dal luogo del delitto Mariantonia sta riempiendo un orciulo alla fontana e quando sente la fucilata venire dalla direzione verso la quale Alfredo stava andando capisce tutto.  Lascia l’orciuolo, che cade e si frantuma, e corre verso il suo amante. Vede la sagoma di un uomo che si allontana con un fucile in mano e gli urla dietro:

Curnutu! Fermo! Fermatelo!

Quando i primi curiosi escono in strada Domenico non c’è più, c’è solo il corpo inanimato di Alfredo Magno, straziato dai lupari, steso sulle gambe di Mariantonia.

Tutti sospettano che a sparare sia stato Domenico e quando arrivano i Carabinieri non ci sono più dubbi su chi sia il responsabile, visto che a casa non c’è e i familiari non sanno dove sia. Oltretutto i militari non hanno dubbi nemmeno sul movente: l’onore.

Il cadavere presenta ferite multiple prodotte da grossi pallini penetranti in cavità nelle regioni cervicale, sottoscapolare sinistra e sottoscapolare destra. Recisione dell’aorta e del polmone destro.

Domenico si costituisce due giorni dopo e spiega quello che tutti già sanno: l’onore suo perduto doveva essere vendicato.

Ma gli inquirenti dubitano che questo caso rientri nella fattispecie del delitto per causa d’onore e chiedono, ottenendolo, il rinvio a giudizio davanti alla Corte di Assise di Castrovillari per rispondere di omicidio premeditato.

La Corte, però, non è d’accordo con le conclusioni degli inquirenti e argomenta: lo stato di eccitazione in cui l’imputato si trovava esclude l’animo tranquillo e pacato che costituisce l’elemento necessario per la sussistenza dell’aggravante della premeditazione, da cui deriva la eccessiva punità del reo.

L’ergastolo è scongiurato, ma resta pur sempre il reato grave, anche se derubricato, di omicidio volontario semplice, secondo quanto dispone l’articolo 364 del Codice Penale Zanardelli, appena abrogato ma ancora vigente all’epoca dei fatti.

La Corte, però, ritiene che per le varie circostanze con cui il fatto fu commesso, va applicata la disposizione più favorevole contenuta nell’articolo 587 del nuovo codice penale, che attenua di molto la pena perché il delitto fu commesso per causa di onore. Tale causale fu immediatamente accertata dai Carabinieri e traspare dalle tavole processuali.

Poi spiega perché decide di proseguire su questa strada: L’art. 587 sopra citato prevede tre ipotesi e cioè: che si cagiona la morte del coniuge o della figlia o della sorella nell’atto in cui se ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia di colui che la morte cagiona. La dizione della legge è chiara: non si richiede che il delitto venga commesso nell’atto in cui si sorprende l’amplesso carnale, ma quando se ne scopre la esistenza della illegittima relazione carnale. Quindi non basta il semplice sospetto della tresca, ma è necessario che chi agisca ne abbia la prova o, in altri termini, la certezza. Alla stessa pena soggiace quando si uccide colui che la relazione mantiene. La Corte, interpretando l’art. 587, rileva che nelle ultime due ipotesi della illegittima relazione carnale con la figlia o con la sorella, l’offesa all’onore è quasi sempre riparabile con un susseguente matrimonio. È indiscutibile che se il matrimonio si verifica, ciò che prima era illegittimo diventa legittimo. Frequenti sono i casi in cui la donna amata viene sedotta dal suo fidanzato con promessa di matrimonio. Il più delle volte questo stato d’illegittimità viene determinata da una diversità di condizione sociale, oppure dal rifiuto del consenso da parte dei genitori di uno degli sposi. Quindi il padre o il fratello, quando scopre la illegittima relazione carnale della figlia o della sorella, può avere, da parte di colui che l’offesa al suo onore ha arrecato, la formale promessa di addivenire al matrimonio. Allora l’uno o l’altro, pur trovandosi nello stato d’ira, dimentica facilmente l’offesa, nella convinzione che l’onore offeso presto avrà una legale riparazione. In questa convinzione venne a trovarsi Giuseppe Costante quando, dopo la fuga della figlia dalla casa di lui e la confessione di lei, si ebbe da Magno la promessa che subito l’avrebbe sposata. Ma purtroppo la prava intenzione non tardò ad affiorare. Egli cominciò a trascurarla, frequentando più assiduamente la casa della sua amante; prese a menar vanto che era stato un capriccio l’aver posseduto Maria Rosaria Costante, che non avrebbe mai sposato anche a costo di subire una condanna; disse apertamente a Maria Rosaria che avrebbe invece sposato un’altra donna che gli portava una dote di trentamila lire, oltre lire Mille di corredo. Di tutto ciò fu informato l’imputato, per cui egli ebbe la piena convinzione che Magno sedusse la figlia per farne soltanto un’amante. Risorse maggiormente nel suo animo lo stato d’ira determinato dall’offesa arrecato al suo onore. Fu reso consapevole di ogni circostanza il giorno 27 giugno; e, se nella notte di tal giorno compie la strage, non è da dubitarsi che abbia commesso il fatto nella ipotesi benevola della nuova legge penale. I due momenti diversi in cui Maria Rosaria Costante abbandonò il tetto paterno e seguì il suo seduttore (notte 3 giugno) e quello in cui Giuseppe Costante ebbe la certezza della prava intenzione del Magno (27 giugno), si accostarono fra loro, si confusero e crearono quello stato di fatto previsto dall’articolo 587, per il quale la pena è attenuata.

Una interpretazione, appunto, della ipotesi benevola della nuova legge penale, dell’obbrobrio giuridico contenuto nell’articolo 587 del Codice Penale Rocco (abolito soltanto il 5 settembre 1981).

E se si tratta di omicidio per causa d’onore, la pena deve essere quella prevista: da 3 a 7 anni di  reclusione. La Corte reputa idonea la pena di tre anni di reclusione, più le pene accessorie e il risarcimento del danno alle Parti Civili.

È il 18 giugno 1932 e vista l’esiguità della pena, meglio non ricorrere in Appello invocando la semi infermità di mente e rischiare di vedere capovolto il giudizio.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.