È quasi mezzogiorno del 12 dicembre 1927 quando i Carabinieri di San Marco Argentano vengono avvisati che in contrada Orsara un individuo, evidentemente ferito alla spalla da un colpo di arma da fuoco giaceva bocconi lungo una stradicciola scoscesa.
Il Maresciallo Giuseppe Martino e i suoi uomini arrivano sul posto dopo tre ore e l’uomo dato per ferito, il ventisettenne Francesco Pasquale Longo di Grottaglie ma sposato a San Marco, è ormai morto.
Sotto il cadavere c’è la sua mantellina militare di colore grigio verde che soleva indossare per andare in campagna. Vicino al cadavere ci sono un ombrello ed una salvietta contenente pane, pesci salati e tre pezzetti di pino resinosi.
Ispezionando i dintorni, i Carabinieri scoprono alcuni particolari che farebbero pensare a un vero e proprio agguato studiato per bene: una impronta visibile sopra foglie secche di persona sedutasi o inginocchiatasi al piede di un castagno giovane distante nove metri circa dal sito dove giaceva il cadavere; ramoscelli crescenti al piede di detto albero, spezzati; stoppacei di ginestra sfilacciati tra l’albero predetto e il sito dove giaceva il cadavere; dischetti di carta (che costituivano un “tacchetto” sfogliatosi in seguito all’esplosione di qualche fucile) sparpagliati nei pressi dell’albero.
Martino torna in paese e dalle prime informazioni che riceve sul conto della vittima (era un individuo d’indole mite, pacifica; faceva qualche partita a carte in qualche bottega soltanto la domenica; non ebbe a fare mai quistioni serie con alcuno; non aveva mai contratto relazioni illecite con donne; non ebbe mai serie quistioni d’interesse con alcuno) si convince che a causa di tutto potrebbe esserci la gelosia di mestiere tra carbonai e ritiene di avere fondati motivi che l’assassinio dello sventurato Longo sia stato preparato e deciso nel vicino comune di Mongrassano. Così va a Mongrassano e, con la scusa di generici motivi di pubblica sicurezza, arresta il trentaduenne carbonaio Pietro Lo Gullo, sua moglie Filomena Capparelli, il sessantatreenne carbonaio Carmine Lo Gullo, il quarantatreenne contadino Giovanni Domanico, più altre sei persone che vengono subito rilasciate perché chiaramente estranee ai fatti. Vengono perquisite senza alcun esito molte abitazioni per rintracciare l’arma del delitto e il Maresciallo deve quasi subito riconoscere che, malgrado le attivissime indagini esperite, non ci è riuscito di avere fin qui prove certe di colpabilità sul conto di alcuno e anche i quattro sospettati stanno per essere rimessi in libertà.
Ma c’è qualcosa che non quadra. Longo, per andare alla sua carbonaia in contrada Piantata, usciva da casa mai prima delle ore 3 o delle ore 4 del mattino, sempre in compagna del suo socio Luigi Russo e sempre percorrendo gli stessi sentieri. Il giorno prima dell’omicidio, però, Pietro Lo Gullo aveva detto a Luigi Russo che quella notte avrebbe atteso Longo fino alle ore 22 in contrada Vallone Cupo (Mongrassano) dove aveva altra carbonaia di proprietà di certo Domanico Giovanni. Il Russo portò l’imbasciata al Longo e alla di lui moglie la sera dell’11 detto e il Longo avrebbe assicurato che quella notte si sarebbe alzato alle ore 23. la moglie del defunto riferisce che il di lei marito si alzò da letto per recarsi alla carbonaia del Domanico non alle ore 23 ma bensì alla ora 1, 15 del giorno 12 dicembre. Presa da una certa ansia pel marito per l’ora in cui lo sventurato, quella volta, si sarebbe recato in montagna, non in compagnia del Russo – stanco per i lavori della giornata e in letto – ma solo, venne rassicurata da questi, anche perché in quella notte vi era la luna. Orari e modalità molto strane per il Maresciallo. Ma c’è di più. Giovanni Domanico racconta che Pietro Lo Gullo gli aveva detto che voleva essere chiamato a mezzanotte per andare a curare la carbonaia di Longo.
– Il Lo Gullo Pietro non mi disse che quella notte, alle ore 22, attendeva il Longo alla mia carbonaia. Sono andato a chiamare il Lo Gullo a mezzanotte ma non l’ò trovato in casa perché da poco uscito, come ho constatato in seguito quando mi sono sentito chiamare dallo stesso che si avviava. Standomene alla mia carbonaia, verso le ore 2,30 del 12 dicembre ho visto venire ivi Longo Pasquale. Alle ore 3,30 circa, Lo Gullo Pietro e sua moglie Capparelli Filomena ci hanno raggiunto. Il Longo è rimasto con noi tutti fino alle ore 4,30 o le 5 e poi ci à lasciati per recarsi in contrada Piantata salendo per la stradetta denominata Cava Agostino, stradetta che mena prima in contrada Aia del Vento.
Una strada completamente diversa da quella che percorreva di solito. Questa versione, confermata anche dalla figlia di Domanico che era presente alla carbonaia, scagionerebbe Lo Gullo e sua moglie, ma apre nuovi e inquietanti interrogativi: chi sapeva, oltre a Pietro Lo Gullo e Giovanni Domanico che Longo avrebbe fatto quella strada proprio quella notte? Secondo il Maresciallo Martino potrebbe essere Carmine Lo Gullo, imbeccato dal suo omonimo Pietro e il movente sarebbe sempre lo stesso. A incastrarlo sarebbero le sue stesse dichiarazioni: sono partito dalla mia abitazione in Mongrassano per recarmi in contrada Parentato (vicinissima alla carbonaia di Domanico) dove ho due carbonaie verso le ore 5,15 del 12 dicembre, facendo giorno; non ho inteso alcun colpo d’arma da fuoco. Praticamente lo stesso orario in cui Longo partì per andare alla sua carbonaia lungo la strada che interseca quella percorsa da Carmine Lo Gullo. Ora, ragiona il Maresciallo, se il Longo è giunto in contrada Aia del Vento “facendo giorno”, rimane accertato che lo stesso è stato ucciso proprio quando il Lo Gullo Carmine giungeva in quei pressi. Come spiegare, quindi, che quest’ultimo non ha inteso alcun colpo di fucile passando dalla contrada Aia del Vento o magari giungendo o sostando in contrada Parentato? In più ci sono le deposizioni di due donne che hanno visto Carmine ritornare a Mongrassano verso le 8,15 e non verso le 6,00 come sostiene il sospettato e le contraddizioni in cui cade la moglie di Pietro Lo Gullo circa l’appuntamento con Longo, gli orari e il percorso seguito nella notte tra l’11 e il 12 dicembre. Per Martino non ci sono più dubbi: crediamo, in tutta coscienza, che l’omicidio del Longo si debba all’opera delittuosa dei tre e li trattiene in detenzione, ma ci sono seri dubbi su questa ricostruzione.
Poi la vigilia di Natale c’è un colpo di scena: il Brigadiere Giuseppe Ponzio, comandante la stazione di Mongrassano, viene avvisato che certo Pizzi Menotti era al corrente del fatto. Lo convoca in caserma la sera del 26 e, in seguito ad opportuno interrogatorio, ottiene informazioni che possono risultare decisive per scoprire il o i colpevoli.
– Sono amicissimo di un certo Penna Domenico, meccanico, pregiudicato. Circa sette o otto giorni fa, passeggiando con lui nell’abitato di Mongrassano e precisamente nei pressi della fontana chiamata “Capritta”, ebbi agio di far parola sull’omicidio perpetratosi giorni prima in contrada Aia del Vento. Il Penna, fiducioso nella mia discrezione, poco per volta mi confessò chiaramente che la mattina del 12 corrente, Longo Pasquale era stato ucciso da lui, da Osvaldo Ruggiero e Argondizzo Biagio, tutti da Mongrassano. Mi confessò inoltre che tanto lui che gli altri due agirono per istigazione di certo Argondizzo Francesco, anche di Mongrassano. La persona che la mattina del 12 corrente doveva essere uccisa non era veramente il Longo Pasquale ma bensì certo Lo Gullo Pietro. Esso Lo Gullo aveva, come è notorio in paese, disonorata anni or sono la figlia di un certo Rende ed è chiaro in questo fatto il movente dell’omicidio…
Tombola! Con questa ricostruzione dei fatti potrebbero essere spiegate tutte le incongruenze di orari e percorsi di quella maledetta notte. Ma bisogna trovare i riscontri e non sarà facile visto il clima che c’è in paese. Comunque, anche per favorire eventuali collaborazioni da parte di gente che sa e che non parla per paura di ritorsioni, il Brigadiere Ponzio fa arrestare i quattro (Domenico Penna fa resistenza e viene denunciato anche per questo reato) e pensa bene di trattenerli in caserma invece di associarli al carcere mandamentale di San Marco Argentano dove è detenuto Pietro Lo Gullo, il quale potrebbe dar luogo o essere causa di gravi incidenti, data la situazione.
A questo punto le indagini ripartono da zero e tutte le caserme dei Carabinieri della zona sono coinvolte nella ricerca di informazioni e prove concrete e il Brigadiere Ponzio si spinge ad affermare che il fosco delitto pare si debba all’opera di associati per delinquere. I nuovi arrestati intanto si difendono dalle accuse:
– Lunedì 12 dicembre sono uscito dalla mia abitazione sita in Mongrassano a giorno fatto. In piazza mi sono incontrato con Ciardullo Alfredo e mio cognato Argondizzo Biaggio e in compagnia di costoro sono andato ad aprire la mia bottega. Durante tutta la giornata di lunedì 12 dicembre 1927 non sono andato in montagna e non mi sono mosso dall’abitato di Mongrassano – afferma Domenico Penna in modo categorico.
– Dichiaro che lunedì giorno dodici dicembre 1927 sono uscito di casa mia allo spuntare del sole e in piazza ò in contrato Ciardullo Alfredo e Staffa Eugenio. Comprati alcuni pesci son ritornato a casa. Ritornanto a casa ò visto mio cognato Penna Domenico nella bottega sua di meccanico ma io sono passato diritto senza parlargli. Nella bottega di mio cognato c’era Pizzi Orlanto – dice Biagio Argondizzo smentendo Penna e di ciò i Carabinieri gli chiedono conto. Lui precisa – Non è vero che io sono antato nella bottega di mio cognato Penna Domenico in conpagnia sua e di Ciardullo Alfredo. Nella bottega di mio cognato sono andato soltanto dopo mezzo giorno…
– Tra l’ottobre e il novembre del 1925 certo Soria Pietro da Mongrassano, ora a Buenos Aires, teneva parola a me e a Argondizzo Francesco di un certo premio di lire cinquemila che si sarebbe pagato a chi avrebbe tagliato la faccia a Lo Gullo Pietro. Né io e né Francesco Argondizzo accettammo l’invito – rivela Osvaldo Ruggiero a sua discolpa.
Ahi ahi… la frittata sta per essere fatta, anzi è fatta perché Penna viene smentito da parecchi testimoni e anche dal Brigadiere Ponzio e dal Carabinere Savino Capuano che lo hanno visto vicino al cadavere di Longo la mattina del 12 dicembre. Non solo. Enrico Bruno asserisce che il 3-12-1927 ha consegnato un fucile a retrocarica a due canne, cal. 16, a Penna Domenico per farlo riparare. Penna Domenico nega questo fatto e nulla si sa dell’arma, attivamente ricercata.
Il Maresciallo Riccardo Cetraro e i Carabinieri Francesco Cassano e Savino Capuano che hanno arrestato Domenico Penna nei pressi del cimitero di Cerzeto, affermano di aver sentito questi esclamare piagnucolando in maniera tutta particolare: “Io non ne so nulla… non l’ho ucciso io…
I Carabinieri sono tanto certi che l’omicidio del povero Pasquale Longo si debba all’opera della malavita locale, che il Maresciallo Martino manda un telegramma al Pretore di San Marco Argentano con una precisa richiesta:
Avendosi fondati motivi per ritenere che l’omicidio in persona di Longo Pasquale si deve all’opera della malavita assoldata a gente che sta in America, si prega la cortesia della S.V.Ill.ma perché si compiaccia disporre presso gli Uffici riceventi il fermo ed il sequestro della corrispondenza epistolare e telegrafica diretta ai sottonotati individui e loro persone di famiglia
1° Penna Domenico
2° Argondizzo Biagio
3° Argondizzo Francesco
4° Lo Gullo Pietro
5° Capparelli Filomena
6° Lo Gullo Carmine, tutti arrestati
E il Pretore dispone in merito.
Ma, sebbene il Maresciallo Martino si ostini a voler mantenere in vita la pista che vorrebbe responsabili i due Lo Gullo e Filomena Capparelli, il Pubblico Ministero non è d’accordo ritenendo gli indizi a loro carico inconsistenti e chiede al Giudice Istruttore che i tre vengano subito rimessi in libertà e, nello stesso tempo, di contestare agli altri il reato di omicidio qualificato per la premeditazione. Il 31 gennaio 1928 il Giudice Istruttore accoglie la richiesta e i tre vengono rimessi in libertà, ma Pietro Lo Gullo resta in carcere per un altro reato.
Intanto la posizione di Domenico Penna si aggrava perché si presenta ai Carabinieri tale Menotti Pizzi con in mano le canne di un fucile dichiarando:
– Quattro giorni prima del suo arresto, Penna Domenico mi consegnò due canne di un fucile ad avancarica pregandomi di tenergliele in casa mia per qualche giorno, cosa che io feci fino ad oggi. Non so se quest’arma abbia relazione con l’omicidio commesso dal Penna, ma io ritenni di no sin da quando mi venne consegnata e pertanto non ne feci parola alla giustizia. La consegno oggi ai carabinieri perché così venni consigliato da certo Sabato Giuseppe, cognato del defunto Longo Pasquale, al quale raccontai il fatto giorni orsono.
Le indagini vanno avanti, quando il 29 febbraio 1928 arriva al Procuratore del re di Cosenza una lettera anonima interessante per il contenuto, la forma e il luogo di spedizione: Cosenza.
Illustrissimo
In questo Giudicato d’istruzione vi è in corso il processo di quello sventurato che fù ucciso giorni prima dello scorso Natale a Mongrassano per cui, se ancora non avranno in mano i complici, i favoreggiatori, i possessori dell’arma omicida, farà comparire il nominato Salerno Francesco residente a Cosenza vicoletto Padolisi 17, interno 2°, colui vi potrà favorire tali schiarimenti essendoli stati confidati da uno dei favoreggiatori
Devotissimo
Non passano che due settimane e accade qualcosa di straordinariamente sconcertante. Scrive il Brigadiere Ponzio:
Alle ore 11 di ieri 15 marzo 1928, in seguito ad ordine verbale ricevuto dall’Ill.mo Signor Giudice Istruttore del Tribunale di Cosenza, ci siamo portati nell’abitazione del meccanico Penna Domenico ed ivi abbiamo rinvenuto e sequestrato un fucile a due canne a dietrocarica, calibro 16, che presentava grosse e diffuse macchie di rugine.
L’arma è stata sequestrata in una stanza molto asciutta, adibita dal Penna ad officina meccanica, stanza altra volta invano perquisita da noi Brigadiere Ponzio Giuseppe, Maresciallo Cetraro Riccardo e Carabiniere Capuano Savino. Essa è stata rinvenuta smontata. I vari pezzi erano stati nascosti sotto grosse tavole. Queste tavole all’atto della perquisizione passata il 27 dicembre non esistevano affatto.
Chi ha portato l’arma nell’officina? Mistero. Evidentemente in paese ci sono altri malavitosi che fiancheggiano quelli in galera. Il devotissimo anonimo è davvero molto bene informato ed è chiaro che il Giudice Istruttore ha parlato, seppure informalmente, con Francesco Salerno.
Ma se la catena di omertà ormai si è spezzata, è altrettanto vero che negli ambienti malfamati si lavora per dare aiuto ai malavitosi carcerati, cercando di fabbricare prove e alibi attraverso testimonianze di comodo, però il gioco non funziona e il Giudice Istruttore ben presto se ne accorge:
Con esposto presentato il 28 aprile u.s. i difensori di Penna Domenico indicavano a discarico dell’imputato Parise Fiore e Caracciolo Francesco i quali, citati, hanno deposto che nel pomeriggio del 30 marzo u.s. Pizzi Menotti, teste d’accusa, confidò loro di avere accusato Penna Domenico per vendicarsi contro costui per una testimonianza fattagli in un processo a suo carico.
Allo scopo di avere gli elementi necessari per la valutazione di tali tardive deposizioni, prego codesto Comando di indagare e riferire sulla condotta e moralità del Parise e del Caracciolo, nonché sugli eventuali loro vincoli di parentela o di amicizia col Penna ed anche sui rapporti tra loro ed il Pizzi.
La risposta dei Carabinieri di Mongrassano non si fa attendere:
Da informazioni assunte sul conto degli emarginati è risultato quanto appresso:
1° Parise Fiore Giuseppe, pregiudicato di sospetta fede politica e di cattiva moralità è tenuto in cattiva reputazione da parte della popolazione di Cavallerizzo ed è ritenuto capacissimo di dire il falso. È un intimo amico del detenuto Penna Domenico ed è perciò degno suo compagno di fede.
2° Caracciolo Francesco, pregiudicato, sovversivo, capace di qualsiasi azione. Denunziato per furto semplice, per grida sediziose e per incendio colposo. Il Caracciolo è un diffamato dalla voce pubblica perché ritenuto capace di aver commesso altri delitti per i quali, dato il suo speciale acume di delinquente, rimase impunito. Il Caracciolo è fraterno amico dei detenuti Penna Domenico e Osvaldo Ruggiero ed è ritenuto capacissimo di dire ciò che non è vero.
Pizzi Menotti con il Caracciolo ed il Parise risulta essere semplice conoscente.
E così viene tirata in ballo anche la politica. Accuse di falsa testimonianza vengono rivolte anche dalla vedova del povero Longo, la quale denuncia le minacce subite dal teste Domenico Posteraro da parte di tali Alfredo Melicchio, Vincenzo Splendore, Giuseppe e Domenico Trotta, tutti di Cavallerizzo. Poi aggiunge: Quest’opera d’intimidazione, del resto, è stata spiegata da numerose persone fin dall’inizio della istruttoria ed essa spiega molte reticenze e molte falsità di cui i segni sono nel processo.
Ma ormai il cerchio si è chiuso e il Pubblico Ministero è in grado di ricostruire le varie fasi dell’omicidio, movente compreso:
La causale del delitto dovrebbe ricercarsi nell’odio che certi fratelli Rende, residenti in America, nutrivano contro Lo Gullo Pietro, la vittima designata, e non colpita, perché aveva relazioni carnali con una loro sorella. Essi Rende avrebbero quindi dato incarico all’Argondizzo Francesco, loro intimo amico, di uccidere il Lo Gullo e Argondizzo, a sua volta, ne avrebbe dato incarico al Penna, al Ruggiero ed all’Argondizzo Biagio i quali, postisi quella mattina in agguato per uccidere il Lo Gullo quando si recava alla contrada Piantata, uccisero il Longo che a causa dell’oscurità scambiarono per il Lo Gullo. Effettivamente costui è in relazioni con una sorella dei Rende. Che l’Argondizzo Francesco si prestasse a far le vendette dei Rende appare confermato da un episodio narrato dal Lo Gullo. Questi, un giorno del febbraio 927 in montagna fu avvicinato da Tevere Giuseppe, cognato dei Rende ed ora emigrato, e da Argondizzo Francesco i quali gli dissero che per quello che aveva fatto chi sa cosa meritava e che, non potendogli far nulla perché c’era gente, si limitarono a sputargli in faccia e togliergli la scure che poi gli restituirono per mezzo di tal Cappellano Camillo che gli disse che i due avevano fatto uno scherzo. Poi accusa: deve infine rilevarsi che molti testimoni o per pressioni o per minacce o per blandizie dei parenti degli imputati si sono chiusi in un ostinato silenzio.
Il 17 ottobre 1928 la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro rinvia a giudizio Domenico Penna, Osvaldo Ruggiero e Biagio Argondizzo con l’accusa di omicidio premeditato commesso per errore in persona di Longo Pasquale anziché di Lo Gullo Pietro; Francesco Argondizzo viene rinviato a giudizio quale mandante dell’omicidio.
Dopo un dibattimento molto laborioso e l’ammissione a costituirsi parte civile di Pietro Lo Gullo, oltre che della vedova di Pasquale Longo, il 18 dicembre 1929, i quattro imputati vengono condannati a 15 anni di reclusione ciascuno, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella legale per la durata della detenzione, nonché a 3 anni di vigilanza speciale, alla rivalsa dei danni e alle spese.
I ricorsi per Cassazione vengono rigettati il 24 gennaio 1931.[1]
[1] ASCS Processi Penali.
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