È la tarda sera del 7 febbraio 1946. Alla stazione della Ferrovia Calabro-Lucana di Casole-Trenta due uomini stanno aspettando il treno che arriverà tra pochi minuti da Cosenza diretto verso la Sila.
Sbuffando, la locomotiva si ferma. Scendono due giovanotti, poi altri due e quindi altre tre o quattro persone. I due uomini, aspettando di salire a bordo del treno, notano che i primi due giovani confabulano tra di loro, poi uno dei due raggiunge gli altri due giovanotti, dice loro qualche parola e quindi con il suo compagno si dirige lungo i binari verso Casole; gli altri due, invece, risalgono la strada verso la Provinciale. In questo frattempo il Capo Stazione fischia e il treno riprende la sua marcia, mentre i due uomini si sporgono da un finestrino e guardano i due giovanotti che si sono fermati e spostati dai binari per far passare il convoglio.
È mezzanotte. Cinque persone saltano la recinzione della villa dell’avvocato Luigi Amato e si avvicinano alla costruzione, sicure che in casa non ci sia nessuno perché l’avvocato risiede a Cosenza. Con velocità e destrezza i cinque prendono una trave di legno lasciata nel giardino, la poggiano al muro della costruzione proprio accanto ad una finestra del primo piano ed uno di loro, quello che sembra essere il capo, si arrampica sulla trave e, scassinata la finestra, entra nella villa. Pochi secondi dopo il portone si spalanca e gli altri quattro ladri entrano, facendo razzia di grande quantità di biancheria, vestiario ed altro. Poi se ne vanno, proprio mentre un colono dell’avvocato che abita accanto alla villa, sentiti dei rumori sospetti, esce e comincia a gironzolare nel giardino, riuscendo a vedere il gruppetto di ladri che se la sta svignando. Si mette a seguirli, ma quelli se ne accorgono e gli sparano contro una fucilata. Il colono, a questo punto, prudentemente rientra in casa senza fiatare, decidendo che solo a giorno fatto andrà a Spezzano Sila per denunciare l’accaduto.
– Mi pare che ne ho contati sette!
– Ma perché non avete chiesto aiuto stanotte? Potevate gridare e magari qualcuno riusciva a fermarli – lo rimprovera il Maresciallo Messina
– Marescià… m’hanno sparato e io pensavo di averli fatti scappare prima di entrare nella villa…
– E invece ne erano appena usciti…
Che il colono c’entri qualcosa? Agli inquirenti suona strano il fatto che nessuno nelle vicinanze abbia sentito colpi d’arma da fuoco, ma l’avvocato Amato è categorico, l’uomo era già al servizio di suo padre e gode della sua incondizionata fiducia.
Intanto i giorni passano e non si riesce a cavare un ragno dal buco. Le uniche cose che i Carabinieri hanno in mano sono un vecchio berretto caduto ad uno dei ladri in una delle stanze visitate ed un temperino in un’altra stanza.
Pedivigliano, 24 febbraio 1946. Un gruppo di amici di Cosenza è riunito in casa di Angelo Pingitore a mangiare e bere. Tra questi ce ne sono due che sono inseparabili, il ventiquattrenne Gaetano Cavaliere e il diciottenne Aldo Gioia. Inseparabili sia nella vita privata, che in quella professionale di ladri. E senza andare troppo per il sottile, si potrebbe dire che la riunione in casa di Pingitore sia una riunione tra colleghi.
Ma arrivati ad un certo punto della festicciola, il padrone di casa si accorge che Cavaliere si è messo nelle tasche del cappotto un paio di soppressate ed una bottiglia di vino, il tutto mentre fa il cascamorto con la moglie di Gioia, il suo migliore amico. È troppo. Un ladro può rubare ad un ladro? Assolutamente no e allora Pingitore, infischiandosene della pessima fama di Cavaliere, comincia a dargliele di santa ragione. Gioia cerca di mettersi in mezzo, ma non ha il fisico adatto per dividerli. Piuttosto, si accorge che i due si stanno pericolosamente avvicinando al fucile di Cavaliere, poggiato accanto ad una finestra.
– Dammelo, dammelo! – urla Cavaliere alla moglie di Gioia, ma quest’ultimo, per evitare che sua moglie o uno dei due litiganti riesca ad impossessarsene per ammazzare l’altro, si lancia sull’arma, l’afferra e la porta fuori di casa.
Cavaliere in questo frattempo è riuscito a svincolarsi prima da Pingitore e poi da un altro comparuccio che cercava di trattenerlo e raggiunge Aldo Gioia fuori dalla casa dove ci sono anche due ragazzini che stanno giocando, i quali, non appena vedono quella furia scatenata, si nascondono dentro un portone, restando a guardare quello che succede.
E succede che Cavaliere strappa il fucile di mano all’amico e glielo punta alla testa. Gioia non crede che l’amico possa avercela con lui, sicuramente lo ha salvato dalla morte o dal carcere, a seconda di chi dei due litiganti fosse arrivato per primo ad afferrare il fucile. “Ma si, è solo incazzato nero perché le ha prese davanti a tutti e la sua figura di capo ne ha ricevuto un colpo durissimo. Gli passerà, è sempre stato così…” pensa Aldo Gioia, poi si rivolge all’amico:
– Dai, caccia il fucile – gli fa quasi sorridendo, mentre istintivamente mette la mano sinistra davanti alle canne del fucile. Poi guarda negli occhi Cavaliere e il sorriso sulle labbra gli muore.
– Merda!
Quando parte la fucilata i due ragazzini chiudono gli occhi e quando li riaprono Aldo Gioia è steso a terra, morto. Guardano anche Cavaliere che dà un calcio al cadavere, bacia il fucile e poi lo lascia cadere a terra mentre si allontana indisturbato.
Ma la cosa è troppo grave e gli altri comparucci non ci stanno a passare un guaio per colpa di Gaetano Cavaliere, soprannominato “’U Brigante”, e così corrono a chiamare i Carabinieri.
La perquisizione che viene fatta nell’abitazione dell’assassino non dà risultati, ma la giacca rinvenuta a casa della sorella porta alla luce qualcosa di interessante, che però con l’omicidio non c’entra niente: un pettinino da borsetta per donna, una penna stilografica dorata, altra penna stilografica marca Parker, sette lamette Palmolive per rasoio, una cartuccia vuota calibro 32 rossa e sette cioccolatini. Perché interessante? Perché le penne stilografiche sono nell’elenco degli oggetti rubati nella villa dell’avvocato Amato e quando gliele fanno vedere lui le riconosce, come riconosce persino i cioccolatini!
Cavaliere è riconosciuto anche dai due passeggeri in attesa alla stazione di Casole-Trenta e a questo punto è certo che lui era uno dei ladri. Sicuramente c’era anche Aldo Gioia perché lo rivela Cavaliere stesso quando viene interrogato:
– Siamo stati io e il mio intimo amico Aldo Gioia, che poi ho ucciso, a fare il colpo alla villa di Amato…
– Se era tuo intimo amico perché lo hai ucciso?
– Non l’ho fatto apposta… si era frapposto tra me e Angelo Pingitore perché non gli dessi una lezione. Il fucile, carico a pallini, volevo scaricarlo contro il mio avversario, colpendolo alle gambe… Aldo mi aveva fatto incazzare e io lo colpii con le canne del fucile alla testa, senonché, disgraziatamente, sono partiti tutti e due i colpi e…
– Sicuro che sia andata così? Qualcuno ti ha visto mentre davi un calcio al cadavere e non si fa questo se si è ucciso un intimo amico per sbaglio!
– Io non ho dato nessun calcio al cadavere di Aldo, ho solo baciato il fucile e me ne sono andato…
– Vedremo cos’altro ci racconteranno i testimoni e vedremo cosa diranno i periti dopo fatta l’autopsia…
Intanto bisogna indagare anche per scoprire chi erano gli altri ladri. Piano piano, di questo gli inquirenti sono convinti, anche gli altri nomi verranno fuori attraverso indiscrezioni, mezze parole, sentito dire.
Il primo nome a spuntare è quello del ventenne Ernesto Vennera il quale, interrogato, si dichiara innocente. E Cavaliere in qualche modo lo scagiona:
– Non lo conosco. Lo ingaggiai qualificandomi per il commerciante Perrone al fine di aiutarmi a vendere e comprare della roba, minacciandolo di morte se non mi avesse acconsentito. L’ho condotto con me a Casole, ma l’ho lasciato distante dal luogo dove facemmo il colpo…
Come previsto, escono fuori anche gli altri nomi: Domenico Furfaro, Antonio Vanni, Giuseppe Le Piane e Giuseppe De Bartolo, il quale è sparito e non si trova da nessuna parte.
Tutti si dichiarano innocenti, ma contro di loro, secondo la Procura, ci sono prove precise:
A carico di Antonio Vanni sta la prova oggettiva costituita dal rinvenimento nella villa dell’avvocato Amato di un temperino caratteristico con un manico nero di ferro con annessa una piccola matita, che il fratellino dell’imputato disse subito spontaneamente che apparteneva al fratello Antonio.
A carico di Giuseppe Le Piane sta la prova oggettiva costituita dal berretto molto logoro rinvenuto nella villa che dal Vanni fu riconosciuto come appartenente al Le Piane, soprannominato “Maiolino”, fidanzato della sorella del Cavaliere. Ha anche a suo carico il fatto di essere stato riconosciuto come uno dei giovanotti scesi alla stazione di Casole-Trenta.
A carico di Domenico Furfaro stanno i rapporti d’intimità col Cavaliere e col Vanni, le indicazioni dei testimoni che videro alla stazione di Casole-Trenta insieme al Cavaliere un giovane che indossava un pantalone coloniale ed un maglione bianco, indumenti che di solito indossava Furfaro ed infatti il pantalone fu ritrovato dalla Polizia nella sua casa.
A carico del Vennera pesano le sue dichiarazioni con le quali ammette di essersi messo con il suo amico Aldo Gioia al seguito di Cavaliere non per paura delle minacce di costui o per l’inganno di andare a servire un commerciante, ma per la suggestione del brigante. Cosciente di essere stato soggiogato, si sarebbe sottratto dal giogo ritornandosene a casa o presentandosi a qualche autorità di Pubblica Sicurezza.
A carico di De Bartolo, sempre latitante, sembra esserci molto poco. Sicuramente non faceva parte del gruppo di ladri, ma successivamente al furto si è unito agli autori di esso e ha con loro consumato una colazione, da lui fornita, in località Trenta.
Risolto il caso della villa Amato, è tempo di esaminare i risultati dell’autopsia, che potrebbero essere determinanti per stabilire la verità dei fatti.
La morte è stata prodotta da un proiettile a palla di calibro 12 e non da pallini piccoli come ha sostenuto l’imputato. Il colpo fu sparato a breve distanza, come si arguisce dalla colorazione del dorso della mano sinistra della vittima, onde il perito ha presupposto che il morto, quando si è visto minacciato con l’arma, ha istintivamente portato la mano sinistra come difesa sul capo. Il colpo è stato uno, perforante prima la mano sinistra, poi il padiglione dell’orecchio, penetrando nella regione mastoidea e fuoriuscendo dalla regione occipitale.
Nessun errore, omicidio fermamente e coscientemente voluto, come per eseguire la sua personale condanna a morte. Ma se sulla dinamica dell’omicidio ora non ci sono più dubbi, lascia perplessi il movente troppo futile, anche se da un criminale come Gaetano Cavaliere ci si può aspettare questo.
Ed è proprio così. Quando vengono raccolte altre testimonianze che descrivono l’antefatto dell’omicidio, l’ipotesi di un delitto commesso per motivi futili ed abietti prende sempre più corpo. Infatti, gli inquirenti scrivono: il motivo futile ed abietto trova riscontro nell’indole perversa del brigante Cavaliere, desto dai forti cazzotti di cui gli era stato prodigo Angelo Pingitore, che mal tollerò la sua prepotenza di voler continuare a restare nella sua casa anche dopo essersi satollato delle sue sopressate e del suo vino. In sostanza nulla il suo succube Gioia gli aveva fatto di male e pur conosciuto che la moglie era in illeciti rapporti col brigante, aveva si percosso la moglie, ma nessuna rimostranza aveva fatto al suo offensore. Egli durante la colluttazione tra Cavaliere e Pingitore, udito costui che sollecitava l’amante ad impossessarsi del fucile del Cavaliere lasciato in un canto della stanza, se ne impadronì prima di ogni altro ed uscì fuori. Ciò che mosse il brigante ad uccidere il suo compagno e succube fu il disappunto di avergli impedito, coll’impadronirsi del fucile, di prevalere sul Pingitore, che aveva avuto il torto di ospitarlo nella sua casa, dandogli da mangiare e da bere e poi di rimproverarlo di avere abusato della giovine età di Gioia godendone la moglie.
Rinvio a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per Gaetano Cavaliere con la pesantissima accusa di omicidio volontario aggravato dai motivi futili ed abietti e di rapina aggravata. Anche gli altri coimputati vengono rinviati a giudizio per il reato di rapina aggravata.
Appena inizia il dibattimento Cavaliere cerca di sparigliare le carte accusando il colono dell’avvocato Amato di avere partecipato alla rapina e di avergli fatto trovare pronta la trave per arrampicarsi e scassinare la finestra, Inoltre, nonostante le precise e concordanti testimonianze dei due ragazzini e nonostante anche i partecipanti al pranzo a casa di Pingitore lo accusino apertamente, il brigante continua a sostenere che la morte del suo amico Aldo Gioia fu una disgrazia. La Corte non crede alla chiamata in correità del colono e non procede nei suoi confronti. Non ritiene nemmeno che si sia trattato di una rapina, ma di furto pluriaggravato perché non è stato sufficientemente provato che contro il colono furono esplosi uno o più colpi di arma da fuoco e quindi viene a mancare il presupposto della violenza, tipico della rapina.
Se gli altri comparucci possono tirare un mezzo sospiro di sollievo, Cavaliere non ha di cosa sorridere perché la Corte ritiene fondata l’aggravante del motivo futile ed abietto. Futile per la grande sproporzione tra movente ed azione criminosa, per la sua ingiustificabilità, per la sua inapprezzabilità giuridica e sociale; abietto perché ripugnante al sentimento comune ed alla comune moralità, come avente cagione dalla perversità del colpevole e dalla sua tendenza a signoreggiare ogni situazione fuori del controllo sociale.
Il brigante Gaetano Cavaliere va all’ergastolo e si porta dietro anche pesanti pene accessorie, più la pubblicazione della sentenza per affissione nei comuni di Cosenza e Pedivigliano e a mezzo stampa nei giornali “Corriere del Sud” di Cosenza e “Il Tempo” di Roma.
Domenico Furfaro e Giuseppe Le Piane prendono 5 anni di reclusione e 5.000 lire di multa ciascuno; Antonio Vanni e Ernesto Vennera prendono 3 anni e 4 mesi di reclusione, più 3.500 lire di multa ciascuno.
Il ricorso in appello di Furfaro, Le Piane, Vanni e Vennera viene dichiarato inammissibile il 20 agosto 1947.
Il 13 febbraio 1950 la Corte di Appello di Catanzaro condona la pena residua a Domenico Furfaro.
Con D,P. 29 maggio 1978 viene concessa a Gaetano Cavaliere la commutazione della pena dell’ergastolo in quella della reclusione finora espiata, con la condizione che il beneficio si intenderà non concesso qualora, entro dieci anni dalla data del decreto, commetta un delitto non colposo per il quale riporti una condanna a pena detentiva superiore a sei mesi.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte di Assise di Cosenza.
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