Nel 1921, all’età di 20 anni, Adelina Lato di Bucita sposa il suo coetaneo Francesco Passarelli, ma nel giro di qualche mese comincia ad essere vittima della più brutale violenza del marito. Violenza quotidiana che prosegue negli anni successivi durante i quali nascono ben sette figli, di cui cinque sordomuti. E questa brutale violenza terrorizza anche le creature innocenti, innocenti come la madre.
Innumerevoli episodi segnano la via del calvario della povera donna che, pensosa solo della famiglia, al cui sostentamento provvedeva col proprio lavoro. Il marito no. Il marito spendeva in bagordi non solo quanto guadagnava, ma anche le risorse familiari e costringeva Adelina ed i figli ad assistere ai suoi adulteri amori con tre amanti contemporanee e successive. Una notte del dicembre 1940, minacciata di morte ed inseguita con la rivoltella in pugno dal marito, Adelina precipitò in un pozzo dove sarebbe morta affogata o assiderata, se non fosse stata salvata da alcuni vicini.
Da questa disavventura passano altri sei anni di inaudite violenze ed umiliazioni quotidiane.
È il giorno di Natale del 1946. Adelina ed i figli sordomuti, gli altri se ne sono andati per la loro strada, subiscono l’ennesima umiliazione, l’ennesima violenza psicologica: sono costretti ad assistere al pranzo del marito e padre con l’amante! Ma non è tutto per gli ultimi giorni dell’anno. E nemmeno l’anno nuovo comincia nel migliore dei modi. Il primo gennaio 1947, mentre la famiglia rimane senza il necessario per mangiare, una delle figlie è costretta, al mattino di buon’ora, a recarsi a San Fili per portare, quale regalo per l’anno nuovo, una bottiglia di vermouth all’amante del padre snaturato il quale, uscito di casa alle ore 8 lasciando la famiglia senza pane, trascorre la giornata in crapula presso l’amante e rincasa dopo la mezzanotte.
Adelina lo ha atteso, in rassegnata disperazione, per tutto il giorno e per tutta la sera con i figli, i quali poi vanno a dormire, mentre lei rimane da sola, accoccolata vicino alla poca brace rimasta nel focolare, pensando alla sua vita disgraziata. Fuori nevica e fa freddo.
Il rumore del saliscendi, la porta di casa si apre. Suo marito entra, la vede e perde subito le staffe.
– Ohi puttana! Ancora alzata sei? Che cazzo mi hai aspettato a fare?
A questa atroce ingiuria, la donna, nella disperazione del momento, ha il coraggio di insorgere, finalmente:
– Pure puttana hai il coraggio di chiamarmi, dopo che mi hai lasciato, dopo che hai lasciato i tuoi figli nel più desolato sconforto senza mangiare anche il giorno di capodanno? ‘Na merda, ecco quello che sei!
Non l’avesse mai fatto! La malvagità di Francesco Passarelli si scatena in tutta la sua brutale irruenza.
– L’ora tua è suonata! – le dice gelidamente. Subito traducendo in atto la minaccia, sale nella camera da letto, prende il fucile carico e ridiscende per fare fuoco sulla sventurata che, in preda a folle terrore, fugge di casa nella notte buia e gelida, fra la neve, e riesce così a sottrarsi alla morte sicura, inseguita per un buon tratto dal marito col fucile in pugno – scappa, scappa, tanto a casa devi tornare e poi facciamo i conti…
Adelina, senza avere addosso abiti pesanti, cerca di ripararsi dal freddo e dalla neve come meglio può ma poi, dopo poco più di un’ora, ormai mezza assiderata, decide di tornare a casa. “O muoio di freddo in mezzo ad una strada o muoio ammazzata. Ma se muoio ammazzata lui andrà in galera e almeno per le mie creature la via crucis finirà”, pensa, mentre battendo i denti affretta il passo.
La porta di casa è socchiusa e dentro c’è buio. Si sente solo il russare soddisfatto del marito dopo la sua giornata di bagordi a casa dell’amante. Adelina sale piano le scale, entra in camera da letto e vede suo marito sulle coperte con il fucile a portata di mano, pronto, appena desto al minimo rumore, a tradurre in atto la minaccia di morte. Per un attimo che sembra l’eternità, il cuore che batteva all’impazzata le si ferma. Ha l’impressione di svenire ma si fa forza, capisce che deve fare qualcosa ed allora, temendo fortemente per la sua incolumità personale, sospesa al tenue filo dell’immanente risveglio del suo carnefice, con la mente sconvolta da più di venti anni di calvario per sé e per i figli e sotto l’assillo dell’ultimo brutale episodio, che acuisce sino allo spasimo il ricordo dei precedenti, con circospezione si gira, va verso un angolo della camera, afferra la scure che suo marito lascia sempre lì e con il dorso di essa, follemente, disperatamente colpisce, colpisce, colpisce alla testa, nel sonno, il suo aguzzino che muore senza svegliarsi, sotto il peso dei suoi misfatti.
Ucciso il marito, bacia i figli ancora dormienti ed ignari della tragedia e va a costituirsi ai Carabinieri di San Fili.
L’istruttoria si svolge rapidamente col rito sommario, ma è proprio adesso che affiora il più turpe, il più esecrando dei misfatti di Francesco Passarelli: tre mesi prima della notte dall’uno al due gennaio 1947 aveva costretto con violenza e con minaccia un’altra sua figlia sordomuta, innocente e pia giovinetta, a congiungersi carnalmente con lui che poi, successivamente, aveva ancora abusato della figlia, rendendola incinta e quindi madre. La povera ragazza, terrorizzata dal turpe genitore, tacque lo scempio e lo svelò solo quando, a gravidanza inoltrata, il suo carnefice era stato ucciso.
Omicidio aggravato dal vincolo coniugale. Questa è l’accusa con la quale, tre mesi e mezzo dopo il delitto, Adelina Lato si presenta davanti alla Corte d’Assise di Cosenza.
Opina la Corte che la Lato agì in stato di legittima difesa, eccedendo però colposamente i limiti imposti dalla necessità. Ella, scampata poco prima con la fuga alla morte, ingiustamente minacciatagli dal bestiale marito, si sentì in imminente pericolo quando, rincasata tremante per il freddo e per il terrore, trovò il marito, benché addormentato, col fucile a portata di mano che, se si fosse svegliato, l’avrebbe sicuramente uccisa senza possibilità di scampo, corrivo come lo sapeva, per triste esperienza, alla più spietata violenza. Ma indubbiamente, sconvolta dai passati e recenti martiri, sopravalutò il pericolo e quindi eccedette i limiti imposti dalla necessità di difendere la propria incolumità, rendendosi così giustiziere e vindice delle tribolazioni e delle nefandezze sofferte da lei e dai figli. Riconosciuto l’eccesso colposo della legittima difesa, si devono applicare le sanzioni dell’omicidio colposo.
Tenuto conto dei precedenti del fatto e dei motivi a delinquere, davvero di particolare valore morale, la Corte irroga il minimo della pena: mesi sei di reclusione.[1]
Dopo il calvario, la Resurrezione.
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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