Eugenio Montalto, padre snaturato, lasciata la moglie ed i figli nella loro proprietà nel comune di Rose con l’obbligo di coltivarla, va a vivere in un’altra proprietà nel comune di Acri per mantenere la sua tresca con Giuseppina.
Comunque, ogni due o tre giorni torna dalla sua famiglia legittima, ma non come padre amorevole, sollecito della sorte del sangue del suo sangue. Ci torna per comandare il lavoro e spietatamente controllarlo, per impadronirsi dei prodotti e portarseli seco, lasciando ai suoi, con esosa tirchieria, appena da sfamarsi ed ogni pretesto è buono per inveire contro la moglie, santa donna e succube sommessa, con vituperii, minacce e percosse e contro le sue creature, spaurite e frementi di ribellione, con minacce di morte e con percosse bestialmente feroci.
Il diciottenne Giuseppe, uno dei figli, che in qualche occasione ha osato difendere la madre, è fatto segno della particolare ferocia paterna. Una volta, addirittura, col pretesto che Giuseppe avrebbe fatto sconfinare gli animali nel terreno seminato, si levò la cinghia dei pantaloni e gliela strinse fortemente attorno al collo a guisa di capestro. Poi giù botte, botte bestiali, con il manico di una scure. Non ancora contento, lo obbligò a togliersi la giacca, i pantaloni e le scarpe, lasciandogli solo la camicia e le mutande.
– Vattene e non fare più ritorno a casa! – gli dice alla fine, scacciandolo, poi se ne torna dalla sua nuova compagna, scuro in volto.
Un paio di amici lo incontrano e, vedendolo molto arrabbiato, gli chiedono cosa abbia. Eugenio racconta loro il suo inferno, poi sbotta.
– A casa ci dobbiamo rimanere o io o lui… o io o lui dobbiamo morire!
È il 28 maggio 1945, sono passate un paio di settimane dall’ultima, furibonda scenata e Giuseppe è tornato da sua madre e dai suoi fratelli. Anche Eugenio Montalto torna dalla sua famiglia legittima e trova subito il pretesto per abbandonarsi alle solite violenze: le sue creature, che lui aveva lasciato senza niente da mangiare, durante la sua assenza si sono sfamate con un mezzo chilogrammo di formaggio e siero, da loro prodotto. Dagli aspri rimproveri passa alle violenze e, imbrandita una scure, minaccia sua moglie, Giuseppe e Attilio, un altro figlio, di ucciderli, ma i due ragazzi riescono a scappare, non dandogli la possibilità di raggiungerli.
– Se non è oggi, vi ammazzerò qualche altro giorno col fucile! – gli grida dietro col fiatone, lanciando la scure nell’aria.
Da un podere vicino, Giuseppe Gabriele ha sentito e visto tutto, così, quando Eugenio si allontana con gli animali, lo ferma.
– Ma che ti hanno fatto per dirgli quelle cose? Sono i tuoi figli!
– Sono stato costretto! Li ho rimproverati per avere mangiato una ricotta ed un pezzo di formaggio!
Giuseppe, lasciato il fratello nascosto in un posto sicuro, va nell’altra proprietà, quella dove adesso vive suo padre in un pagliaio. Non c’è nessuno. Entra e si impossessa del fucile perché sa che prima o poi sarà usato contro di lui o i suoi fratelli o sua madre. Lo consegnerà ai Carabinieri di Rose, raccontando tutto quello che stanno subendo.
Lungo la strada, in contrada Viparara, ecco quello che non si sarebbe mai aspettato: suo padre che percorre la stessa mulattiera in senso opposto. Si guarda in giro per vedere se ci sia qualcuno a cui chiedere aiuto, ma non c’è nessuno.
– Che cazzo fai col mio fucile? – gli urla, agitando minacciosamente la scure, tolta dal basto dell’asino
Non ci si può aspettare niente di buono quando due persone, peggio se padre e figlio, si affrontano, una armata di fucile e l’altra di scure, le armi più micidiali dei contadini. La prima mossa è del padre che si scaglia con la scure contro il figlio per colpirlo. Giuseppe ha l’arma migliore, ma è terrorizzato da quegli occhi di fuoco che lo guardano. Le gambe cominciano a tremargli e resta un attimo imbambolato, poi imbraccia il fucile. Sa che uno di loro due dovrà inevitabilmente soccombere, esattamente come aveva previsto suo padre.
Adesso tra lui e il genitore ci sono tre o quattro metri. Il padre solleva la scure per abbatterla sul figlio. Due metri, ora o mai più. Giuseppe forse chiude gli occhi mentre tira il grilletto, proprio mentre suo padre se ne accorge e la sua espressione cambia di botto: mai si sarebbe aspettato una cosa del genere e adesso è lui ad essere terrorizzato. Tenta disperatamente di girarsi per evitare il colpo e forse proprio questa mossa gli è fatale perché la rosa dei pallini di piombo lo centra alla schiena, facendolo cadere a terra bocconi tra mille lamenti. Morirà dopo pochi minuti di agonia.
Anche Giuseppe cade a terra in ginocchio singhiozzando. non avrebbe voluto che finisse così. Poi tira su col naso, si asciuga le lacrime, si mette il fucile a tracolla e lascia suo padre lì per correre dai Carabinieri.
– Questo fucile era di mio padre… ora è morto… è partito un colpo… – poi racconta l’inferno vissuto e gli ultimi istanti – come mi vide col fucile mi rimproverò e, imbrandita la scure che tolse dal basto dell’asino, cercava di colpirmi. Io mi sono scagliato contro di lui e riuscii a disarmarlo della scure, che buttai per terra. Mio padre cercò di raccoglierla, ma mentre si chinò per ciò fare, imbracciai il fucile per fargli paura e credendo il fucile scarico, ho premuto il grilletto. È partito un colpo che lo ha colpito alla schiena ed è caduto bocconi…
È credibile? In un primo momento si, ma quando vengono interrogati i vicini e i familiari e viene fuori il terrore che Giuseppe, sua madre e i suoi fratelli provavano nei confronti del padre, il dubbio che mai a poi mai il ragazzo avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo faccia a faccia si materializza e gli inquirenti raggiungono il convincimento che Giuseppe abbia ucciso volontariamente suo padre. Così il 20 settembre 1945 viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di omicidio volontario aggravato dal vincolo di parentela.
Il 5 marzo 1946 si tiene il dibattimento e la Corte osserva che nell’assenza di risultanze generiche e specifiche contrarie all’assunto dell’imputato, questo deve essere ritenuto per veritiero, tanto più se, come nel caso, trova riscontro nella concatenazione logica e coerente degli avvenimenti.
È pacifico che tra padre, violento e disumano, bestiale, persecutore incallito della famiglia legittima, ed il figlio Giuseppe, esasperato per le continue vessazioni e percosse alla mamma, ai fratelli ed a lui, il sangue fosse invelenito ed acceso anche dall’ultimo episodio del mattino, dinanzi al quale la protervia del padre si era ancora abbattuta sulla mamma, su lui e sul fratello Attilio. In tale stato d’animo l’incontro casuale avvenuto nella contrada Viparara, armato l’uno di fucile ed a portata dell’altro la scure, non poteva essere senza conseguenze. Onde trova presso la Corte credito il racconto dell’imputato, che come il padre lo vide in possesso del suo fucile sia montato su tutte le furie ed abbia imbrandito la scure sfilandola dal basto ed abbia cercato con essa di colpirlo. Ma in questo momento, è logico, egli ha dovuto far partire volontariamente il colpo di fucile che ha cagionato la morte. Non è credibile che egli abbia affrontato il padre e lo abbia perfino disarmato della scure e poi abbia imbracciato il fucile e premuto il grilletto per intimorire, credendo il fucile scarico. Incredibile perché illogico. Egli non avrebbe mai affrontato il padre, del quale aveva il più grande terrore e non avrebbe mai abbandonato il fucile per disarmarlo, poiché questo costituiva la sua unica difesa contro la troppo conosciuta ferocia e protervia paterna. Faccia a faccia col padre egli non sarebbe nemmeno riuscito a sparare, tanto l’avrebbero sconvolto gli occhi feroci e spaventosi di lui. Nella rincorsa verso di lui armato di scure, quando gli fu a soli due metri di distanza e presentandosi un momento di dorso per un qualche eventuale accidentalità del terreno, egli esplose un unico colpo dei due dei quali era carico il fucile, per sottrarsi al grave, imminente pericolo che sovrastava la sua giovane vita.
Così convinta, la Corte giudica che l’imputato non è punibile per aver commesso il fatto costrettovi dalla necessità di difendere la propria vita contro il pericolo imminente dell’offesa ingiusta paterna.
E spiega. Concorrono nel fatto tutti gli elementi della difesa legittima: necessità di difendere il più importante diritto umano, quale è la propria vita, perché contro il proposito malvagio e feroce del padre, più volte manifestato, che armato di un mezzo idoneo, la micidiale scure, stava per realizzare, non aveva altro scampo; attualità del pericolo perché il padre era già pronto ad ucciderlo; proporzione tra la difesa e l’offesa poiché al pericolo gravissimo di essere attinto dalla micidiale scure, si è reagito con un solo colpo del fucile, l’unica arma che egli aveva.
Giuseppe deve però accettare la condanna a 3 mesi di arresti per il porto abusivo del fucile.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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