Nel 1939 Ciccio Santopaolo, 27 anni da Arcavacata di Rende, si innamora della sua vicina di casa Concetta Palermo, dalla quale, con uguale entusiasmo, viene compiutamente corrisposto con tutto l’ardore dei suoi giovani anni. Ciccio e Concetta vogliono fidanzarsi ufficialmente e sposarsi, ma al loro progetto si oppone, inconsideratamente, la madre del giovane, Rosaria Storino.
– Né mò e né mai! Non è femmina per te!
– Ma… mamma…
– Ho detto no ed è no! Basta con questi discorsi!
Dopo quasi quattro anni di tira e molla, Ciccio, per vincere l’ostinato rifiuto di sua madre, pensa di metterla davanti al fatto compiuto: seduce l’ancora inesperta e tanto innamorata Concetta, ma nemmeno questo serve a fare cambiare idea alla madre. Allora, infranto ogni ritegno, superata ormai la castigata purezza, i due fanno l’amore sempre più spesso, fino a quando, siamo ormai nel 1943, Concetta rimane incinta. Nemmeno arrivati a questo stato di cose Rosaria si arrende, anzi per capire meglio a quanto può giungere l’egoismo esaltato di una madre e come inesorabile è la sua volontà quando intende volgere nel suo dominio anche la vita spirituale dei propri figli, bisogna dire che la donna riesce, con l’aiuto di una levatrice, ad attuare l’infernale disegno di fare abortire Concetta. Qualcosa però va storto, la notizia arriva all’orecchio dei Carabinieri e le donne vengono arrestate e sottoposte a processo che, nel 1944, si conclude con l’assoluzione per insufficienza di prove.
Ciccio, intanto, si è arruolato nei Carabinieri e viene prima mandato a Catanzaro e poi a Chioggia, dove conosce una donna, Bruna Marchesan, con la quale si fidanza e si sposa. Quando nel 1947 viene congedato, Ciccio torna ad Arcavacata con la moglie. Apriti cielo! Nemmeno Bruna piace alla sua perfida madre e la poveretta comincia a vivere in un vero e proprio girone infernale. Aizzato dalla madre maligna, il marito s’aderge minaccioso e violento contro la moglie e, divenuta intollerabile per mille scenate la vita comune, Bruna, inadatta anche ai lavori di campagna, naturalmente insorge contro l’inaudita oppressione che su di lei si va addensando e, con buona pace di tutti, riesce ad ottenere la separazione legale, tornando a Chioggia triste e sola con la sua immane sventura.
E Concetta? Ancora scossa per l’abbandono e per la brutta vicenda dell’aborto, nel 1948, pensando di riparare alla sua rovina, si rifugia nell’amore di un generoso giovane contadino, che intende farla sua sposa. Ma la fragile serenità della giovane è destinata a durare poco, Rosaria è in agguato!
Visto che il figlio è in preda allo sconforto, comincia ad insinuargli che può riprendere la vita laddove l’aveva lasciata, rifare il filo spezzato riallacciando la relazione con Concetta, inducendola, se del caso, a convivere con lui nella stessa sua casa! E Ciccio che fa? Segue ancora una volta i consigli, i disegni di sua madre e riprende a corteggiare Concetta che, dimentica di tutto il passato brutto e nero, sente ancora simpatia e amore per il suo seduttore e aderisce in pieno a tale nuova situazione anche la povera madre della giovane. Ciccio, Concetta e le loro madri fanno anche una riunione per accordarsi su come portare avanti la tresca, stabilendo che Ciccio andrà in casa Palermo per compiere le sue visite e ritrovarsi con essa giovane. Bene. Anzi no, male, malissimo perché questa scellerata decisione non può certamente far piacere ai fratelli di Concetta, ancora memori dell’onta patita. Il più furioso dei fratelli Palermo è Eugenio, il minore, che vive in paese. È così imbestialito che la sera del 3 luglio 1949 fa una grave scenata contro la madre e la sorella, avendo sorpreso in casa Ciccio Santopaolo, il quale è costretto, per sottrarsi alle forti mani di Eugenio che cercano di afferrarlo, a scappare precipitosamente, lanciandosi da una finestra. Lo scampato pericolo dovrebbe indurre i due amanti alla prudenza, ma invece continuano a vedersi come se niente fosse accaduto.
È la mattina dell’11 luglio 1949. Ciccio, Concetta e le rispettive madri si incontrano ancora una volta in campagna, non lontano dalla casa dei Palermo, per concordare le ultime cose prima che i due piccioncini vadano a convivere more uxorio per conto loro.
Eugenio Palermo è tornato a casa dal lavoro mattutino nei campi. Come fa spesso accende una sigaretta e si affaccia alla finestra. Gli occhi gli vanno alla grande quercia che è nel fondicciuolo non lontano da casa. All’ombra dell’albero ci sono quattro persone, tre donne ed un uomo, che parlano tra loro. Hanno un aspetto familiare, così Eugenio aguzza la vista e bestemmia. Butta la sigaretta, fruga in un cassetto, prende la sua Beretta calibro 9, se la mette nella cintura dei pantaloni dietro la schiena e va verso la quercia a grandi passi.
– Tu e tu, arrassativi! – dice a sua madre e sua sorella, per farle allontanare.
– Sei armato? – gli chiede Concetta, che si avvicina e gli tasta le tasche della giacca per, eventualmente, disarmarlo. Non trova niente e fa un cenno a Ciccio di stare tranquillo.
– Strunzu! Da qui te ne devi andare e a mia sorella la devi lasciare stare!
Ciccio, tranquillizzato dal cenno di Concetta e confidando nella sua maggiore prestanza fisica, si avvicina ad Eugenio, lo afferra per la camicia, lo strattona e poi gli assesta due sonori ceffoni. Eugenio a questo punto è accecato dall’ira; fa qualche passo indietro, prende la pistola e ripete a sua madre ed a sua sorella di allontanarsi, poi spara. Spara sei volte. Tre volte contro Ciccio Santopaolo, che si abbatte al suolo senza un lamento, colpito al petto, alla coscia sinistra ed al gomito destro. Gli altri tre li spara contro Rosaria Storino, la madre di Ciccio, ma a lei va molto meglio e se la cava.
Eugenio si allontana dal posto e per un paio di giorni di lui non si sa più niente.
Mezzogiorno. Fa caldo. Nella caserma dei Carabinieri di Rende squilla il telefono. È il Comandante dei Vigili del Fuoco di Cosenza il quale avvisa che poco prima, ad Arcavacata, un giovane è stato ucciso e la madre, ferita, è ricoverata in ospedale con prognosi riservata.
Dalle prime ricostruzioni del fatto, sembra evidente la volontà omicida di Eugenio Palermo, che si costituisce il 13 luglio nella Questura di Cosenza ma, interrogato, nega di essere andato sotto la quercia con l’intenzione di uccidere il seduttore di sua sorella, sebbene provvisto di un’arma da guerra.
– Ho sparato dopo che lui mi ha messo le mani addosso… pensavo volesse ammazzarmi… mi sono difeso… – questa è l’unica spiegazione che darà in tutti gli interrogatori, senza cambiare nemmeno una virgola. E nonostante qualche contadino vicino, richiamato dalle urla, abbia visto che la pistola è comparsa nella mano di Eugenio solo dopo gli schiaffi, l’accusa è quella di omicidio volontario continuato, che comprende anche il tentato omicidio in danno di Rosaria Storino.
L’aula della Corte d’Assise di Cosenza è piena di curiosi il 27 novembre 1950, giorno del dibattimento.
Immane, enorme dramma quello che, nella lontana mattina caliginosa travolse e sconvolse esseri ancora primitivi, esagitati da passioni imponenti, sorpresi e toccati profondamente da sentimenti sacri dell’onore, dell’amore, dell’attaccamento alla famiglia! Fosca, terribile tragedia che tinse ancora una volta la terra di sangue vivo e una giovane vita fu spenta spietatamente e proditoriamente. L’esordio del Presidente della Corte non promette nulla di buono. Su tutto pesa l’inutile tentativo di uccidere anche la madre di Ciccio Santopaolo.
Ma la difesa, con magistrale accorgimento e con valide argomentazioni affronta il problema giuridico che alla causa s’accompagna, fissandolo in quattro tesi:
a) È da escludersi la volontà omicida in considerazione dello stato di evidente emozione in cui il Palermo si trovò al momento della sorpresa. In un attimo come quello in cui si trovò il Palermo non si vede nulla. Non basta sparare, in un momento di intenso dolore bisogna, invece, sparando, prevedere e volere la morte: questo è il dolo omicida.
b) Egli versò in stato di legittima difesa, avendo il rivale osato strappargli la camicia, giungendo financo a schiaffeggiarlo ed in tale reazione quanto meno gli si può fare carico di un eccesso colposo di legittima difesa.
c) Il Palermo, comunque, agì per un impellente, urgente causa di onore contro l’attentatore ostinato, protervo, pervicace di tutta la sua saldezza morale e della sua famiglia.
d) In ogni caso sussistono, a suo favore, l’attenuante della provocazione e quella di aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale.
Secondo la Corte, al contrario, non esistono dubbi sulla volontà omicida: lo dimostrano i reiterati colpi di pistola, le minacce rivolte contro Francesco Santopaolo di voler vendicare l’onore della sorella; lo dimostra fatto che non appena vide il gruppo di quattro persone si armò e poi disse alla madre e alla sorella di allontanarsi dagli altri due.
La Corte, a questo punto, solleva un dubbio: è certo che Santopaolo aggredì Eugenio Palermo? La Corte non si fida troppo della ricostruzione fatta dall’imputato e dai suoi familiari, seppure confermata da qualche testimone che ha assistito da lontano, ma smentita categoricamente da Rosaria Storino. La questione non è da poco perché potrebbe, se confermata, dimostrare lo stato di legittima difesa. Per arrivare alla soluzione del problema, la Corte ripercorre il racconto fatto da Eugenio e lo mette in relazione con i risultati dell’autopsia: nessuna delle diverse ferite risultate alla visita necroscopica presentava tatuaggio ed affumicatura, caratteristiche che si sarebbero dovute rilevare almeno su alcuni dei fori di entrata delle ferite, se i colpi fossero stati sparati a bruciapelo, cosa che si sarebbe verificata se Palermo, come assume, fosse stato afferrato per la camicia. Quindi, per la Corte, non sparò per legittima difesa.
La Corte poi affronta il problema se l’omicidio sia stato commesso per causa d’onore. Assolutamente no e spiega: la povera Concetta Palermo, sorpresa dalla malvagità degli uomini, cade in fallo, si insozza di fango e moralmente, irrimediabilmente, perduta sin dai lontani anni compresi nel lungo periodo 1939-1944; sedotta da Francesco Santopaolo inizia il suo doloroso e tragico calvario, sospintavi dall’infernale malvagità della madre del suo seduttore, che la induce niente di meno all’obbrobrioso aborto! Il suo fallo è nel pubblico dominio, anche perché è coinvolta in un clamoroso processo che ha termine con un’assoluzione per insufficienza di prove. Nel 1944 si conclude funestamente la sua rovina morale perché viene abbandonata da Santopaolo: nel contado non vi è più alcuno cui non sia nota l’onta patita dalla giovane e certamente conosciuta dai suoi familiari, compreso il giovane fratello Eugenio. Tutti si accasciano nel dolore e la giovane derelitta pensa, nel 1948, di riparare alla sua rovina rifugiandosi nell’amore di un giovane contadino che intende farla sua sposa. Poi la ripresa della relazione con Santopaolo. Ciò posto, manca che l’agente, Eugenio Palermo, commetta il fatto nel momento in cui è venuto a conoscenza dell’illegittima relazione carnale tra la sorella e il suo seduttore. Nella norma, continua la Corte, è scolpita la necessità di un rapporto di immediatezza, di simultaneità e di contestualità tra la scoperta dell’illegittimo legame e l’uccisione o il ferimento. Non vi è chi non veda quanto tempo ebbe a passare da quando il Palermo ebbe conoscenza dell’onta patita dalla sorella (1944) fino al giorno in cui si spinse ad uccidere il seduttore della stessa, il luglio 1949!
Ma tutto ciò non impedisce di affermare che il reo versò in stato di provocazione e che l’azione da lui compiuta va valutata nella sua reale consistenza morale. Lo stravagante Santopaolo – è una verità inconcussa – con le sue malefatte, esosamente arrecò il dolore nella timorata famiglia Palermo e scosse profondamente l’onore della stessa, quell’onore che per la nostra gente ancora “sana” è ancora stemma tradizionale del proprio casato. Ben legittima, ben giusta erompe la reazione violenta di Eugenio Palermo quella mattina in cui la vittima, assieme alla madre, si poneva a discutere di dare concreta attuazione ad un progetto di vita, assolutamente immorale, ripugnante, offensiva non solo per la giovane, ma essenzialmente per la famiglia Palermo. E l’ira imponente emozionò, vinse, travolse il giovane Eugenio e gli guidò la mano omicida nell’esplosioni funeste dei vari colpi di pistola! Imponente, pure, si ravvisa l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e sociale.
Tutto questo serve per determinare la pena da infliggere all’imputato per il reato di omicidio continuato e per la detenzione abusiva di arma da guerra: 21 anni di reclusione. Sottratte le tre attenuanti concesse e aumentata la pena per la continuazione del reato, questa scende a 6 anni e dieci mesi, più altri 2 mesi e 25 giorni per il porto d’arma abusivo, oltre le pene accessorie. Poi deve essere applicato l’indulto emanato il 23 dicembre 1949 e vengono scalati altri 3 anni. Adesso siamo a 4 anni e 25 giorni.[1]
Gli resta da scontare circa un anno e mezzo, non vale la pena spendere altri soldi in ricorsi.
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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