COMPARE, NON LO DOVEVATE FARE!

Tra le famiglie di Francesco Cicero e quella di Tommaso Pino, che abitano entrambe in contrada Villanova di Amantea, corrono da più tempo rapporti di amicizia e parentela spirituale, tanto che si aiutano vicendevolmente nei lavori agricoli e spesso i figli di Francesco Cicero prestano servizio nell’azienda di Tommaso Pino.

Costui, ammogliato con figli, profittando, però, di tali amichevoli relazioni, nel gennaio del 1948, attira nella sua abitazione con un pretesto la venticinquenne Domenica Cicero e la costringe a soggiacere alle sue voglie.

– Se dici qualcosa, prima ammazzo te e poi tutti i tuoi familiari!

E Domenica non parla. Certamente, oltre che per il timore che il compare mandi ad effetto le sue continue minacce, anche per non rivelare l’onta subita.

Dopo poco tempo, però, Domenica comincia ad avvertire degli strani disturbi di stomaco e decide di farsi visitare dal dottor Florio ad Amantea.

– Non è niente, ti segno una cura tonico-ricostituente – le dice il medico.

La giovane segue scrupolosamente la cura, ma i disturbi continuano e allora le viene il sospetto che potrebbe essere incinta. Pensa che prima di ogni cosa debba informarne colui il quale l’ha messa in questa brutta situazione, anche perché ha paura della sua vendetta.

– Compà, mi avete messo incinta e mò che faccio?

– Devi abortire, che vuoi fare? O vuoi fare scoppiare uno scandalo? Te l’ho detto che non devi fiatare se no ammazzo te e tutta la razza tua! Facciamo così… vieni dopodomani ché ti faccio trovare delle medicine per l’aborto.

Domenica abbassa la testa e se ne va. Due giorni dopo torna dal compare e si trova in mano alcune fialette per iniezioni.

– Te le devi fare tutte, una al giorno, mi raccomando, se no perlamadonna lo sai che fine ti faccio fare!

Domenica, però, quelle iniezioni non se le fa e il 2 aprile 1948 va di nuovo ad Amantea dal dottor Florio e gli confida tutto.

– Si, sei incinta – conferma il medico – e meno male che non hai usato quelle porcherie! Io ti consiglio di parlarne a tua madre che certamente ti capirà e ti aiuterà.

– Non… non ne ho il coraggio

– Allora ci penserò io a dirle tutto. Falla venire da me domani e non preoccuparti.

La giovane torna a casa e dice alla madre che il dottor Florio le vuole parlare di quei fastidiosi problemi di stomaco e così, la mattina del 3 aprile, Caterina Aloe va dal medico.

– Domenica è incita e ha paura di dirvelo, ma non la maltrattate, a tutto c’è riparo… magari vi confesserà chi è stato e si sposeranno in grazia di Dio!

Sì, il dottor Florio fa presto a parlare, la figlia mica è la sua! Caterina ha un mezzo svenimento al pensiero di doverlo dire a suo marito, ma sa che il guaio ormai è fatto e bisogna farsi forza per il bene di tutti.

– Ma davvero sei incinta? Malanova tua! – dice a Domenica appena torna da Amantea.

– Si, di quasi quattro mesi…

– Ma chi è stato?

Silenzio assoluto.

Quando Francesco Cicero torna a casa nel tardo pomeriggio, sua moglie gli racconta tutto davanti a due dei tre figli maschi, Vincenzo e Mario. L’altro figlio, Fiore, è a casa sua. Sbigottimento, sgomento, rabbia. L’onore della famiglia, l’onesta famiglia Cicero è perduto. O forse ancora no, se Domenica si decidesse a rivelare il nome del suo seduttore e arrivare al matrimonio riparatore. Ma la giovane non parla e allora arriva anche qualche ceffone. Che cosa deve fare la poveretta? Rivelare il nome di chi l’ha rovinata e rischiare di essere ammazzata con tutta la famiglia o essere scacciata di casa come una puttana ed essere, comunque, morta? Domenica cede ai suoi familiari.

– È stato compà Tumasi

– Che cosa? È impossibile! È uno di casa… sposato… malanova! Curnutu! Manco il matrimonio si può fare!

In questo frattempo arriva anche l’altro figlio, Fiore, che ascolta senza fiatare. Poi lo sconforto prende il sopravvento e tutti si guardano l’un l’altro in silenzio, senza sapere cosa fare per uscire dal vicolo cieco in cui sono stati messi loro malgrado.

Scende la sera. Nessuno ha voglia di mangiare né di parlare, né di fare altro. Fiore, a testa bassa, saluta tutti e torna a casa. Sarà una notte lunga da passare. Eppure l’ora di alzarsi arriva come ogni santo giorno e alla stessa ora si presentano i problemi di ogni santo giorno: il lavoro nei campi, gli animali da portare al pascolo, l’acqua da andare a prendere alla fontana. Tutti i Cicero cominciano la giornata come sempre, ma nella testa si è insinuato un tarlo, il tarlo della vendetta.

Fiore è al pascolo con gli animali. Seduto su un sasso guarda nel vuoto rimuginando intorno all’accaduto. Poi, verso le 8,00, si alza e va verso la casa di suo padre; passa come se niente fosse davanti alla casa del compare, chiama a raccolta i familiari e comincia tra loro una lunga discussione, più di tre ore, sul da farsi.

Poco dopo le 11,30 la porta di casa Cicero si apre. Sull’uscio appare Fiore con una scure in mano, poi suo padre con il fucile imbracciato e poco dopo gli altri due figli maschi.

Fiore si dirige con passo deciso e lo sguardo torvo verso la strada Nazionale Campora San Giovanni – Serra Aiello e la imbocca. Non deve percorre un lungo tragitto prima di incontrare Tommaso Pino che sta arrivando dalla direzione opposta. Lo ferma.

Compare, avete fatto una cosa che non dovevate fare! – gli dice freddamente e, prima che l’altro riesca ad aprire bocca, con una mossa fulminea brandisce la scure e lo colpisce violentemente tre volte in testa.

Tommaso Pino barcolla ma non cade. Allora il capofamiglia scosta il figlio che sta per colpire di nuovo, prende la mira e spara, quasi a bruciapelo, un colpo. Adesso il compare cade, ma sembra muoversi ancora. Francesco Cicero punta ancora l’arma e spara il secondo colpo. Tommaso Pino ha un sussulto, poi resta immobile. Morto.

Padre e figlio sputano a terra e si allontanano, tornando alle proprie attività.

Sono le 14, 30 quando un nipote della vittima bussa alla caserma dei Carabinieri di Amantea e li avvisa dell’accaduto.

Il cadavere presenta tre ferite alla testa, di cui una sul lato destro della regione parieto occipitale, una sulla parte sinistra della volta cranica ed altra sul cranio in corrispondenza del mastoide sinistro, tutte da arma da taglio; una ferita da arma da fuoco nella regione mammaria sinistra ed altra ferita da arma da fuoco sul margine superiore del padiglione dell’orecchio sinistro. Uno spettacolo raccapricciante che dà la precisa sensazione che alla vittima sia stato dato il colpo di grazia.

Qualcuno, da lontano, ha assistito alla scena e racconta tutto ai Carabinieri, che vanno a casa dei Cicero.

– L’ho ammazzato io con due colpi di fucile a brevissima distanza perché aveva disonorato la mia famiglia, avendo sedotto con violenza e resa incinta mia figlia Domenica – ammette subito, senza alcuna emozione, il settantunenne Francesco Cicero. E le tre orrende ferite da scure alla testa? Nessuna risposta, sembra essere diventato muto.

Siccome è chiaro che Pino è stato ammazzato da più di una persona, i Carabinieri arrestano anche i due figli presenti in casa, Vincenzo e Mario, che dichiarano, quasi in lacrime, la propria innocenza. Per adesso finiscono in camera di sicurezza, si vedrà poi di accertare le singole responsabilità.

La sera stessa si costituisce Fiore, assumendosi le sue responsabilità.

– Ho partecipato all’omicidio del compare Tommaso Pino colpendolo con alcuni colpi di scure alla testaaveva disonorato mia sorella Domenica

Dopo un anno, il 23 aprile 1949, la Sezione Istruttoria di Catanzaro rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Francesco e Fiore Cicero con l’accusa di omicidio volontario e proscioglie per insufficienza di prove gli altri due figli.

Durante il dibattimento, il 16 maggio 1950, escono alcune ammissioni di Fiore Cicero che potrebbero costare care a lui ed a suo padre:

Quella sera, in un primo tempo la notizia mi produsse un turbamento indicibile, ma finii per calmarmi, tanto che ritornai nella mia abitazione per riposare… la mattina lasciai le mie pecore al pascolo e ritornai, verso le 8,00, nella casa paterna, dove si ricominciò a discutere della cosa appresa il giorno avanti

La parte civile chiede che venga affermata la responsabilità dei due imputati secondo i reati loro ascritti, con la condanna degli stessi al rimborso delle spese ed al risarcimento dei danni. Il Pubblico Ministero chiede che gli imputati siano ritenuti responsabili del reato di omicidio per causa d’onore (da 3 a 7 anni di reclusione, art. 587 c.p., abrogato il 5 agosto 1981) e condannati il Cicero Francesco ad anni sette di reclusione ed il Fiore ad anni sei della stessa pena. La difesa fa la stessa richiesta del Pubblico Ministero, chiedendo però la concessione delle attenuanti generiche e la condanna al minimo della pena.

La Corte, osservando che la volontà omicida degli imputati non è da mettere in dubbio, individua la causale unica dell’omicidio nella grave ed irreparabile offesa recata dal Pino Tommaso all’onor familiare dei Cicero, col sedurre e rendere incinta Domenica Cicero, alla quale non poteva arridere alcuna speranza di riparazione, per essere il Pino ammogliato.

Ciò premesso, continua la Corte, non può essere applicata l’ipotesi di reato per come è stato richiesto sia dal Pubblico Ministero che dalla difesa degli imputati, in quanto manca il rapporto di immediatezza fra la scoperta della illegittima relazione carnale e l’uccisione, rapporto necessario per la sussistenza della particolare figura delittuosa di omicidio per causa d’onore. Anche se la Suprema Corte ha affermato che per la sussistenza del delitto d’onore non è necessaria la sorpresa in flagranza ma basta la scoperta, comunque fatta, dell’illecita relazione carnale da parte del soggetto attivo e la successiva reazione di questo, tuttavia è sempre necessario che ciò avvenga in un tempo tale da far ritenere che nel momento del delitto permanga vivo nell’agente lo stato di scompiglio psicologico suscitato dalla scoperta dell’illecita relazione del familiare, che lo sospinse alla violenza. Nel caso in esame, invece, tra la scoperta dell’illecita relazione ed il delitto è trascorso un lasso di tempo tale da far cessare quello stato di intensa emozione suscitato dalla scoperta e tale da dar luogo alla riflessione.

Indubbiamente in casa Cicero vi fu una esplosione di dolore e di disperazione nell’apprendere la sciagura capitata a Domenica, tuttavia, quella sera, all’esplosione di ira e di dolore causata dalla notizia, non seguì alcuna azione e neppure, per come riferito dai componenti la famiglia Cicero, venne formulato alcun proposito di vendetta nei confronti di Tommaso Pino. Tutti finirono col calmarsi, tutta la notte trascorse senza alcun incidente, sino al mattino successivo quando, dopo più di tre ore di discussione, Fiore, seguito dal padre si avviava fuori di casa armato di scure in cerca di Tommaso Pino. È evidente che i Cicero non reagirono sotto l’impulso dell’interna emozione suscitata dal dolore e dall’ira della scoperta, ma in un secondo momento, allorquando, e per le molte ore trascorse e per il fatto che essi si erano calmati, all’emozione era subentrata la riflessione e gli stessi avevano ripreso il dominio dei loro nervi.

Un brutto segnale per gli imputati, che possono tirare un sospiro di sollievo quando la Corte afferma che competono loro diverse attenuanti. Anzitutto che essi agirono nello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto dell’offeso; compete anche l’attenuante di avere agito per motivi di particolare valore morale e cioè al fine di lavare col sangue l’offesa recata dalla vittima al loro onore familiare. Infine, la Corte stima giusto concedere loro le attenuanti generiche.

La pena adeguata è quella di 21 anni di reclusione, che va ridotta in virtù delle attenuanti concesse ad anni 6, mesi 4 e giorni 20 di reclusione. Ma Francesco Cicero va condannato anche per il porto abusivo di arma da fuoco e alla pena per l’omicidio si aggiungono mesi 10 e giorni 20 di reclusione.

Poi c’è da considerare l’applicazione dell’indulto emanato con il D.P. 930 del 23/12/1949 e vanno condonati 3 anni ciascuno.

Restano, così, per Fiore Cicero 3 anni, 4 mesi e 20 giorni, in gran parte già scontati, e per suo padre 4 anni, 3 mesi e 10 giorni, scontati per metà circa. In pratica, tra attenuanti e condono, si è arrivati alla richiesta fatta dalla difesa.

Il 13 dicembre 1950, la Corte d’Appello di Catanzaro dichiara inammissibili i ricorsi degli imputati.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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