«Se muore sotterralo lungi dall’abitato, brucia i suoi panni, mantieni isolati per dieci giorni i suoi assistenti e disinfetta tutto col cloro e col vetriuolo». I morti dell’epidemia di colera che colpì Cosenza nel 1866 furono tolti dallo “Ospedale cholerico” e inumati in gran fretta, giusto il tempo di una benedizione, poi interrati senza cassa nella viva calce a due metri circa di profondità nelle fosse dei camposanti provvisori della Riforma e di colle Pancrazio. In una dotta corrispondenza tra i medici cosentini Michele Fera e Alessandro Lepiane, custodita tra la “miscellanea” della Biblioteca Civica, tutta la sofferenza di una città assediata dal “cholera morbus” nell’autunno del 1866 e gli ovvi entusiasmi per la “scoperta” di nuovo metodo di cura.
QUARANTENA L’epidemia di colera del 1866 colpì in tutto 18.929 individui di Calabria Citeriore, lasciandone vivi 412.993. Ottantasei furono i morti a Cosenza tra cui 4 contadini, 41 lavoratori manifatturieri e 15 commercianti. Il colera entrò da piazza Piccola e San Giovanni, il 21 novembre, portato da «torme di soldati congedati che ci piombavano addosso», provocando dolori e lutti ma anche una «emigrazione generale» dei ceti abbienti sulle alture dei casali, indifferenti «verso i cittadini languenti, a cui non seppero sagrificare un soldo sulle loro pingui fortune», come ebbe a denunciare l’allora sindaco Nicola Mollo. Le vittime furono in tutto 86, uomini, donne ma soprattutto bambini dimoranti nei sudici bassi della città, dove il “mal coleroso” sferzò con maggior forza e vigore. «Questo municipio si tramutò in ufficio sanitario», scrive Mollo, e grazie a un mutuo di 6 mila lire concesso dalla Banca Nazionale «per sovvenire almeno ai bisogni più urgenti della pubblica salute». Ospedale colerico, cordone sanitario, quarantena delle abitazioni infette, disinfezioni continue con fuoco e vetriolo, suffumicazioni di cloruro di calce e acido solforico: questi i mezzi messi in campo dal sindaco e dal prefetto Amari-Cusa contro il colera. Quattordici medici sguinzagliati in città (Francesco Molezzi, Giuseppe Gallucci, Alessandro Lepiane, Bruno Tucci, Pasquale Rebecchi, Domenico Conte, Domenico Mascaro, Michele Fera, Giovanni Parise, Felice Roberti, Giuseppe Fiorini, Antonio Anzelmo, Fortunato Benvenuti, Filippo Pisani) e nei suoi casali si trovano però divisi sulla cura del morbo.
I PREPARATI FERROSI I sostenitori della “completa ospedalizzazione” in una sorta di lazzaretto diretto dal giovane medico Francesco Molezzi, erano avversati dai dottori Alessandro Lepiane e Michele Fera, secondo i quali «non ospedale ma pozzanghera, ma fomite di reciproca infezione, ma latrina avrebbe dovuto chiamarsi». Quest’ultimi erano i sostenitori del «metodo Guglielmi-Camassa» che consisteva nella somministrazione ai colerosi di solfato o citrato di ferro in granuli disciolti in acqua. Molti guarirono, altri no, avvelenati secondo i detrattori dai nuovi preparati ferrosi. Si accese così una disputa tra “velenisti” e istitutori del lazzaretto.
I DIARI DI LEPIANE Per giorni il dottor Alessandro Lepiane appuntò minuziosamente in un diario l’evolversi della “cura” su un campione di 22 pazienti, dei quali solo 6 alla fine trovarono la morte. Tra quelle righe storie minime di vite infime passate alla storia solo per via del proprio male. Entrata nei tuguri dei cosentini, dalle prime avvisaglie all’ultimo stadio, la “morte gialla” rapiva in 24 ore. Uccise Antonio Pellegrino, garzone di carrozza di soli sette anni e Federico De Bartolo 9 anni, dimorante in un vicolo di piazzetta delle Erbe, che lo aveva contratto dalla sorella Marietta. Strappò due figlioli alla famiglia Gallo residente in via Cassari, uccise le signore Cipparrone, Marzulli e Borrelli abitanti rispettivamente in piazza Piccola e vico filanda Martucci e Timpone di Donnici. C’era infine chi alle cure dei medici preferì adottare discutibili rimedi “alternativi”. Credette di salvarsi il direttore delle carceri giudiziarie Nicola Costaldi «usando tutto il giorno gli agli e le cipolle che giudicava preservativi del colera», al pari di Gregorio Mercurio, orologiaio di Fontana Stocchi, imbrogliato da un medico «che lo saziò fino alla gola di sapone veneziano». Rapida e impietosa la “morte gialla” lasciò già in dicembre la città, favorendo il ritorno di nobili e commerci.
Matteo Dalena
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