Quando, agli inizi della primavera del 1929, Francesco Ester ritorna a Rota Greca dopo anni da emigrato Allamerica, scopre che in casa sua si è trasferita un’amica di sua moglie, Filomena Cameriere, e scopre anche che questa situazione va avanti da anni a sua insaputa.
Ma le sorprese non sono finite.
– Dammi il libretto di risparmio ché devo prelevare qualcosa per l’anticipo della terra… – dice a sua moglie, Adelaide Billotta la quale, imbarazzata, glielo porge – ma chi cazz’ha fattu? Mancano un sacco di soldi…
– Ehm… ho fatto delle spese con Filomena…
– Te li sei spesi con quella? Il mio sangue lo hai fatto bere a lei! Ventimila lire! Dille che se ne deve andare immediatamente!
– Io non la caccio, è amica a me e resta qui!
– Allora la caccio io!
E così Filomena Cameriere viene messa alla porta in malo modo e torna a vivere a casa sua, senza più le comodità a cui si era abituata.
La mattina del 9 aprile Adelaide, insolitamente premurosa, sveglia suo marito con una tazzina di caffè fumante. L’uomo beve d’un fiato ma storce il muso per il retrogusto amaro del caffè. Guarda nella tazzina e vede un sedimento biancastro depositato sul fondo. “Nemmeno ha girato lo zucchero…”, pensa, poi si alza, si veste ed esce. Ma, preso più tardi da dolori viscerali e da vomito, ripensa al sedimento biancastro in fondo alla tazzina e si convince di essere stato oggetto di tentativo di veneficio da parte di sua moglie, certamente con la complicità della sua amica. Torna a casa di corsa e si mette a frugare dappertutto, finché non trova due involti contenenti l’uno una polvere bianca e l’altro una polvere verdastra. Se li mette in tasca e corre dal farmacista del paese per fargli esaminare le polverine.
– Sicuramente c’è del vetro pestato insieme ad altra materia – dice il dottor Ricci e questo basta a Ciccio Ester per correre dai Carabinieri e sporgere querela. Poi torna a casa e caccia anche la moglie, che va a vivere con Filomena a casa dei genitori di quest’ultima.
È la mattina del 28 maggio 1929. Mario, il figlio di Ciccio Ester, sta giocando nelle vicinanze di casa quando gli passa accanto Filomena Cameriere, che fa un atto di disprezzo verso il ragazzo sputando per terra. Mario, allora, raccatta da terra un sasso e lo lancia contro la donna, spezzando un orciuolo di terra cotta che Filomena tiene in mano. Di qui la reazione della donna la quale a sua volta rilancia il sasso contro il ragazzo, colpendo però la sorella dodicenne. Questa, colpita ad una gamba, si mette a piangere e Mario corre ad avvertire di quanto avvenuto il padre, che se ne stava nella casa di una vicina e nel frattempo è uscito alle grida della figlia. È furioso, passi tutto, ma non che se la prenda con i suoi figli. Mette la mano in tasca e tira fuori una rivoltella mettendosi a correre verso Filomena che, a tale vista, cerca riparo nella propria casa e chiude in fretta la porta, ma Ciccio Ester riesce a forza ad aprire la porta e così, entrato nell’abitazione della famiglia Cameriere, esplode contro la donna un colpo dell’arma da lui impugnata e poiché Filomena cerca scampo con la fuga, continua a sparare così da uccidere la donna quasi all’istante per averla colpita tre volte ai polmoni e agli intestini.
Poi scappa portando con sé l’arma; tre giorni dopo, cioè il 1° giugno, si costituisce nella caserma dei Carabinieri di San Martino di Finita.
– L’ho ammazzata io – ammette prendendosi il viso tra le mani – ma non ci avevo pensato prima ad ammazzarla… di fronte all’atto violento di quella donna ai danni della mia bambina ho perduto ogni controllo della volontà… se avessi voluto ammazzarla lo avrei fatto quando, in correità con mia moglie, aveva tentato di avvelenarmi…
– Come fate a dire questo?
– Le ho denunciate e c’è una causa pendente… e pensate che insieme a mia moglie si è mangiata il sudore della mia fronte… ventimila lire hanno tolto ai miei figli quelle due…
– Anche di questo siete sicuro?
– Sono andato alla Posta e dal libretto mancano ventimila lire… mia moglie non mi ha voluto dare spiegazioni esaurienti e io me lo spiego essendo convinto che tra loro corressero rapporti innominabili contro natura o, quanto meno, che Filomena fosse al corrente di segreti non rivelabili nei riguardi di mia moglie, che sospettavo di infedeltà e allora…
– Le polverine di cui avete parlato le avete ancora?
– No, le ha il Pretore al quale le ho consegnate quando ho fatto la denuncia…
La perizia ordinata per stabilire la natura delle polverine accerta che non potevano essere idonee allo scopo di avvelenare chicchessia. La polverina verdastra risulta essere il prodotto di erba disseccata (asparagi), completamente innocuo. Dalle indagini in merito risulta che Filomena Cameriere diede la polvere alla moglie di Ciccio Ester per frenare mestruazioni eccessive. Quella bianca risulta composta da vetro triturato in modo così fine da non potere recare alcun danno, anche se ingerita.
Terminate le indagini, la Sezione d’Accusa ritiene di poter rinviare a giudizio l’imputato con la terribile accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione e quella minore di violazione di domicilio a mano armata. Ma Ciccio Ester comincia a comportarsi in modo strano.
Fissata la causa per il 27 febbraio 1931, il Presidente della Corte, su richiesta del Pubblico Ministero, sospende il giudizio disponendo una indagine peritale per accertare quale sia lo stato di mente dell’imputato al momento del fatto.
Francesco Ester viene ricoverato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto e i periti lo giudicano un anomalo psichico che presenta le caratteristiche essenziali della mentalità paranoica. Conseguentemente, pur escludendo il vizio totale di mente, i periti affermano che al momento del fatto l’imputato si trovava in tale stato di infermità mentale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla.
Il processo si può fare, ma la Corte ritiene che si debba escludere l’aggravante della premeditazione. Vero è che l’Ester nutriva rancore verso la Cameriere: a torto o a ragione egli la considerava come la causa di tutti i suoi dispiaceri familiari attribuendole di avergli alienato l’anima della moglie con la quale, secondo certe affermazioni del giudicabile, avrebbe avuto rapporti contro natura, mentre secondo altre affermazioni sarebbe stata l’intermediaria tra la moglie e un presunto amante. Per lo più la Cameriere, oltre avere cooperato con la moglie alla dissipazione del denaro mandato dall’America, avrebbe, con la moglie stessa, tentato il suo veneficio, circostanza già dichiarata non vera. Ma non si può dimenticare che il processo ha fornito elementi di un certo rilievo a favore dell’imputato. È infatti risultato che pochi giorni prima del denunciato tentativo di avvelenamento, la Cameriere aveva chiesto al farmacista Ricci di Rota Greca una materia tossica per uccidere dei topi, materia che non le venne data perché la richiesta non era accompagnata da ricetta medica. È risultato pure che dopo la denuncia fatta dall’imputato circa il tentativo di avvelenamento, Filomena Cameriere avvicinò la donna che le aveva fornito la polvere vegetale, pregandola di dire, se interrogata, che aveva lei fornito la polvere sospetta e promettendole un regalo. Queste circostanze, anche se di natura equivoca, poterono far sorgere nell’animo dell’imputato dei gravi sospetti a carico della Cameriere. Tuttavia l’imputato, che tutto ciò acclarava fino dalla prima decade di aprile 1929, non commetteva alcuna violenza contro la Cameriere. Né si può dire che l’imputato abbia preordinato l’uccisione della Cameriere non avendo l’istruttoria fornito alcun elemento in proposito, mentre è certo che a pochi istanti prima del fatto l’imputato si trovava tranquillo in casa di una sua vicina di casa e solo uscì quando udì il pianto della sua bambina. Si è inoltre accertato che proprio in quei giorni, in seguito a malattia ad una guancia, il giudicabile aveva deciso di farsi operare a Cosenza e infatti tutto aveva preordinato per partire lo stesso giorno 28 maggio insieme ai figliuoli e solo per un banale incidente la partenza fu differita al giorno seguente. Tutto ciò induce a pensare che l’imputato agì d’impeto e non dopo aver premeditato il delitto. Fu l’occasione del momento che accese d’ira il prevenuto il quale, lasciatosi trasportare dall’occasione che la Cameriere gli ispirava, compì il delitto.
Tutto questo se non ci fosse di mezzo la perizia psichiatrica che consiglia di esaminare il caso sotto una luce diversa. Non può dubitarsi della infermità mentale del giudicabile, tuttavia la Corte non sa se l’Ester possa classificarsi o meno un tipo paranoico; certo è che le carte processuali e in particolare i rilievi dei periti rivelano come l’imputato ritenesse e ritenga tutt’ora di essere circondato da nemici che tramano ai suoi danni. Egli, insomma, si ritiene un perseguitato e questa forma di mania persecutoria, innestata sopra un soggetto psichicamente debole, deve avere scemato grandemente, senza escluderla, la sua imputabilità.
La sua azione delittuosa, quindi, è stata dovuta sia alle sue condizioni mentali, sia al rancore che da tempo nutriva contro la vittima, ond’è che, crollati ad un tratto i freni naturali, compì la strage della donna che in quel momento rappresentava la sua grande nemica.
Ma ci sono altre cose che la Corte considera ai fini del giudizio: i precedenti di Francesco Ester, ottimo lavoratore che, lavorando in America, aveva cercato di migliorare le condizioni proprie e dei suoi; non vanno dimenticate, da ultimo, le dolorose condizioni famigliari in cui Francesco Ester si era venuto a trovare dopo che la moglie aveva lasciato la sua casa a seguito della denuncia per tentativo di veneficio.
Considerato tutto ciò, la Corte condanna Francesco Ester a 4 anni di reclusione per l’omicidio di Filomena Cameriere e ad 1 anno di reclusione per la violazione di domicilio a mano armata. Ma, visti i precedenti dell’imputato, gli concede il condono di un anno di pena restrittiva, giusto il R.D. di indulto del 1 giugno 1930.
Non è tutto. La Corte ritiene che Francesco Ester sia senza alcun dubbio un soggetto pericoloso per le sue condizioni mentali: egli, non solo ebbe, al momento del delitto, l’imputabilità grandemente scemata per malattia mentale, ma tale stato si è dovuto certamente aggravare in seguito, se si consideri che giunse ad accomunare alla Cameriere e a sua moglie, cioè a quelle che riteneva le sue dichiarate nemiche, un ottimo professionista quale il dottor Ricci di Rota Greca che, senza alcun fondamento, sospettò amante della moglie e gli stessi suoi legali che andava man mano scegliendo e nominando, non fidandosi evidentemente della loro attività.
Le dichiarazioni rese in istruttoria, specialmente ai periti psichiatrici, il suo comportamento anche in udienza, convincono la Corte che sia necessaria l’irrogazione di una misura di sicurezza nei riguardi del giudicabile, mediante il ricovero del medesimo in una casa di cura e custodia, a pena espiata, per un periodo minimo di tre anni.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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