Nel 1931 a Regina, frazione del comune di Lattarico, opera una specie di società che spiega la sua attività nel commettere furti di polli, conigli, capretti, agnelli, vino ed altri generi alimentari, che poi sono consumati allegramente or nella casa di uno, or nella casa dell’altro. Nessuno dei furti viene denunziato perché tutti temono le rappresaglie dei componenti di tale società, specie del capo, Giovanni De Ciancio, uomo violento e pericoloso. Così lo definiscono i Carabinieri e così lo conoscono i compaesani raccontando alcuni aneddoti.
Francesco Panza, segretario politico del fascio locale, ricorda che una sera aveva organizzato una riunione di partito a casa sua per prendere alcuni provvedimenti e far voti presso la competente autorità per una maggiore attribuzione di acqua alla frazione di Regina. Mentre discutevano, senza alcun diritto, intervenne il De Ciancio il quale, pur essendo stato invitato da Panza ad uscire, poco preoccupandosi che non è lecito penetrare e fermarsi nel domicilio altrui senza il permesso e, peggio ancora, contro il divieto del padrone di casa, volle prepotentemente rimanere e quando si diede lettura della dichiarazione circa l’acqua, interloquì sostenendo che non era quello il mezzo idoneo per raggiungere lo scopo, ma occorreva riunirsi in molti, presentarsi al Podestà ed usare violenza se non li avesse accontentati. I componenti del direttorio, conoscendo il tipo, subirono non solo la sua presenza, ma anche i suoi consigli di violenza.
Gaetano Ruà racconta di una sfida che De Ciancio fece a suo cognato; Aristodemo Milano accenna ad un’aggressione a mano armata di pugnale da parte di De Ciancio ai danni di un certo De Seta ed essendo egli intervenuto per disarmare De Ciancio, questi rivolse l’arma contro di lui; Pietro Pagliaro parla di un forte pugno ricevuto da Di Ciancio per una futile questione di gioco e racconta, inoltre, che una notte, nel recarsi a lavorare in un frantoio, vide uscire da una certa casa tutti i compagni di De Ciancio, compreso lui che gl’impose di tornare a casa ed egli obbedì; Antonio De Luca afferma che, essendo creditore di De Ciancio di 150 lire, ha preferito perdere il credito piuttosto che irritarlo con richieste e, peggio ancora, con atti giudiziari.
Quindi è pacifico che De Ciancio sia un poco di buono e tutti lo temono, subendo in silenzio le sue prepotenze.
Accade, in una notte del mese di novembre 1931, che dal pollaio di Antonio Sessa spariscano alcune galline. Antonio, risentito, se ne lamenta pubblicamente in una bettola. Uno dei presenti, Francesco Petrucci, lo chiama in disparte e gli confida:
– Guarda che a rubare le galline è stato tuo cognato Pietro Belmonte…
Antonio non ci crede perché conosce bene suo cognato e sa che non sarebbe mai stato capace di commettere un furto, tuttavia ritiene opportuno informarlo della voce che comincia a girare in paese. Pietro, ovviamente, ne rimane molto addolorato e preoccupato, specie perché teme di essere messo in cattiva luce verso il suocero, la cui stima e benevolenza non vuole perdere.
Che fare? Pietro decide di andare a parlare con Francesco Petrucci per chiedergli conto dell’accusa fattagli.
– Non sono stato io a fare il tuo nome, ho sentito Antonio Pranno che ti accusava del furto.
Maggiormente impressionato ed allarmato in quanto capisce che la grave calunnia sta cominciando ad essere di dominio pubblico, si propone di dimostrare ad ogni costo la sua innocenza. L’unico modo possibile per raggiungere lo scopo è di parlare contemporaneamente con Petrucci e Pranno ed ottenere da costoro una esplicita ed ampia ritrattazione. Li cerca per giorni senza riuscirci, poi nel pomeriggio del 16 gennaio 1932 li vede che sono seduti sui gradini della chiesa, nell’unica piazzetta di Regina, e si va a sedere con loro. I tre hanno appena cominciato a spiegarsi, quando sopraggiunge il guappo Giovanni De Ciancio che, con atteggiamento provocante ed imperioso, dice:
– Smettetela, si tratta di un fatto ormai sorpassato e dimenticato!
Il povero Belmonte – anche lui teme l’ira del guappo – si arma di prudenza e se ne torna a casa, ma sempre col proposito di avere una soddisfazione dai suoi calunniatori. Ma chissà quando riuscirà ad incontrarli di nuovo insieme!
Fatalità vuole che a sera dello stesso giorno Pietro Belmonte vada nella cantina di Ernesto Azzinnari per comprare un pezzo di formaggio. Apre la porta, entra e vede seduti ad un tavolo, intenti a bere vino in allegria, tutti i componenti della società: Giovanni De Ciancio, Francesco Petrucci, Antonio Pranno, Giuseppe Iaquinta, Ercole Tocci e Giuseppe Carbonaro.
– Bevi questo bicchier con noi! – gli fa il guappo, porgendogli un ottavino colmo di rosso.
– No, grazie – rifiuta con gentilezza, forse perché nell’invito vede una provocazione o forse perché davvero non ha voglia di bere. Lo sguardo di De Ciancio, che non è abituato a tollerare che alcuno osi opporsi alla sua volontà, si fa duro e tagliente, come il tono di voce con il quale replica:
– O bevi, o ti faccio bere, o te ne vai!
Pietro capisce che in queste parole si nasconde una vera e propria minaccia, così prende dalle mani del guappo il bicchiere e beve un sorso di vino, quindi posa il bicchiere sul tavolo e aspetta, in un clima molto teso, che gli venga consegnato il formaggio.
Anche il cantiniere capisce che la situazione si sta facendo delicata e non vuole guai nel suo locale, così, dato il pacchetto a Pietro, con la scusa che si è fatto tardi ed è il momento di chiudere, fa uscire tutti e serra la porta.
Una volta fuori nel buio, Pietro tenta di avvicinare i suoi due calunniatori per chiudere la faccenda, ma anche questa volta interviene De Ciancio dicendo:
– È ormai ora di finirla… – e contemporaneamente sferra un pugno a Pietro, colpendogli in pieno l’occhio sinistro. Pietro, sia perché si è visto impedito nel raggiungimento del suo scopo, sia perché teme di essere accoppato dal De Ciancio, da Petrucci e da Pranno che gli sono accanto armati di bastone, ma anche dagli altri che si stanno pericolosamente avvicinando, caccia di tasca una rivoltella e spara due colpi contro il guappo, poi altri tre a casaccio, mentre Petrucci e Pranno lo prendono a bastonate.
De Ciancio cade a terra senza un lamento, colpito da due proiettili, uno alla regione parieto-temporale sinistra e l’altro all’addome. Entrambi i proiettili colpiscono organi vitali e la morte sopraggiunge quasi istantanea.
Pietro Belmonte è tutto pesto, ma riesce ad allontanarsi senza ricevere altri colpi, poi si costituisce e anche i suoi due aggressori vengono arrestati.
L’istruttoria viene chiusa il 10 settembre 1932 con il rinvio a giudizio di Pietro che dovrà rispondere di omicidio volontario e porto abusivo di arma da fuoco e dei due che lo hanno colpito, Petrucci e Pranno per lesioni volontarie.
Il dibattimento si tiene nell’unica udienza del 27 gennaio 1933, durante la quale Pietro Belmonte ribadisce di avere sparato per difendersi, Francesco Petrucci conferma di avere colpito l’avversario a bastonate per impedire che esplodesse altri colpi di pistola, Antonio Pranno continua a negare di aver partecipato alla rissa.
Dall’istruttoria e da quanto emerge dal dibattimento, la Corte ritiene altamente improbabile che si tratti di omicidio volontario: dalle modalità del fatto è ovvio che Belmonte, quando sparò, ritenne che De Ciancio intervenne per ucciderlo, tanto più che si avvicinò furioso e pronunziò con tono iroso e deciso “è tempo di finirla”, facendo seguire queste parole da un pugno. Tutto ciò sta a dimostrare che il Belmonte ben a ragione temette per la sua vita e dimostra altresì che non soltanto il pericolo di un’aggressione, ma vi fu addirittura un principio di esecuzione. Se poi si aggiunga la presenza di Petrucci e Pranno armati di bastone e degli altri affiliati di De Ciancio, la dimostrazione di questo stato d’animo di Pietro Belmonte è ancora più completa.
Evidentemente, però, ma ragionevolmente, facendo uso della rivoltella egli esagerò nella valutazione del pericolo, in quanto De Ciancio non adoperò alcuna arma ed i suoi compagni, pur avendo visto cadere il loro capo, e dopo che Belmonte esplose tutti gli altri colpi di rivoltella, non inveirono più contro di lui e lasciarono che si rialzasse dal tombino dove era caduto e se ne andasse indisturbato a casa, onde non la discriminante della legittima difesa, bensì gli compete la diminuente dell’eccesso colposo di difesa legittima.
Insomma, una via di mezzo tra la condanna, concesse le attenuanti generiche, a 14 anni di reclusione e l’assoluzione per avere agito in stato di legittima difesa. Fatti i conti la Corte ritiene giusto comminare la pena di 5 anni di reclusione, più pene accessorie. Nello stesso tempo dichiara condonati anni tre della pena.
Per quanto riguarda Francesco Petrucci e Antonio Pranno, la Corte dichiara non doversi procedere per essere il reato loro ascritto estinto per amnistia. È il 27 gennaio 1933 e, a questo punto, a Pietro Belmonte resta da scontare un altro anno di carcere.
La difesa, però, ritiene che ci siano gli estremi per ricorrere al giudizio della Suprema Corte di Cassazione che, dopo poco più di due mesi, emette la sentenza:
La Corte di Cassazione del regno, con sentenza del 7 aprile 1933, accoglie il ricorso e dichiara estinto il reato di omicidio con eccesso di legittima difesa ed annulla senza rinvio la sentenza impugnata nel relativo capo di condanna, fermo restando il capo concernente la condanna al sestuplo della tassa per la contravvenzione alla legge sulle concessioni governative.[1]
Pietro Belmonte è libero, ma la contravvenzione deve pagarla, quel che è giusto, è giusto!
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.
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