– È andato bene il viaggio? – chiede Angelina Elia a suo marito Vincenzo Spadafora, di ritorno da Crotone.
– Mi ha fatto male la testa… mi fa male la testa… forse il treno… mio fratello Fedele mi voleva dare una pillola ma non l’ho voluta… mi vado a coricare… ma prima legami un fazzoletto alla testa, stretto stretto…
Angelina è perplessa, non ha mai visto suo marito ridotto in quelle condizioni. Anzi, non lo ha mai visto lamentarsi per un mal di testa! Ma Vincenzo ormai ha quarant’anni e forse è normale che cominci ad avere qualche acciacco, pensa la donna.
È il 9 marzo 1946 e in contrada Palinudo di Bianchi ha da poco smesso di piovere.
– C’è Gesù Cristo… c’è la Madonna… c’è pure l’angelo custode che mi protegge… – non fa che ripetere Vincenzo non appena apre gli occhi, la mattina del 10 marzo.
– Ohi Vincè, ma ti senti bene? – gli chiede la moglie, senza ottenere risposta. Poi Vincenzo si alza, si prepara ed esce.
Va alla stazione ferroviaria delle Calabro-Lucane dove lavora suo fratello Fedele per chiedergli di avvisare tramite telefono l’altro loro fratello Giuseppe, guardiano notturno delle Ferrovie a Soveria Mannelli, perché lo raggiunga in paese avendo delle notizie urgenti da dargli circa una vertenza che ha col suo padrone a Crotone. Fedele esegue e avvisa Vincenzo che Giuseppe verrà in paese la mattina del 12 marzo, martedì.
La Littorina da Soveria Mannelli arriva a Bianchi alle 7,30 in punto. Fedele è sul marciapiedi e non appena vede scendere suo fratello Giuseppe, gli va incontro. Si abbracciano e si baciano come fanno di solito, poi si avviano verso casa di Vincenzo. Lo trovano che sta facendo le pulizie perché sua moglie è ammalata. Vincenzo posa la ramazza e abbraccia i fratelli, poi si mette a parlare con Giuseppe che gli dà ragguagli sul suo interessamento presso la Camera del Lavoro di Crotone per la vertenza che Vincenzo ha con il padrone, mentre Fedele va a salutare sua cognata e chiederle come sta. Poi, all’improvviso, le urla di Giuseppe.
– Aiuto, mi curtellìa! Aiuto, mi accoltella!
Fedele scatta come una molla e torna nella stanza dove ha lasciato i fratelli: Vincenzo tiene per la gola Giuseppe con la mano sinistra, mentre con l’altra brandisce un coltellaccio. Si lancia su Vincenzo per disarmarlo e rimane ferito ad una mano. Ma adesso sono in due che tentano di disarmarlo e allora Vincenzo, che sembra una furia scatenata, comincia a tirare fendenti alla cieca. Arriva anche la moglie che cerca di calmarlo, mentre i bambini piangono e urlano terrorizzati. Nella stanza ci sono anche i due figli di una loro cugina che, nonostante la paura, sgattaiolando alle spalle dei fratelli Spadafora, arrivano alla porta di casa e la aprono, riuscendo a scappare. Giuseppe vede la porta aperta, crede sia più prudente cercare di scappare e corre via. Anche Fedele ha lo stesso pensiero e corre verso la porta, ma una coltellata alla schiena gli toglie le forze e stramazza a terra. Vincenzo, sbuffando come un toro, si lancia all’inseguimento di Giuseppe e lo raggiunge a pochi metri dalla porta di casa della loro madre. Giuseppe si gira, cerca di estrarre dalla tasca una rivoltella per fermare l’incomprensibile furia di suo fratello, magari sparando in aria o, se fosse proprio necessario, sparandogli nei piedi. Ma Giuseppe non ha calcolato bene la distanza che lo separa da Vincenzo e, mentre ha ancora la mano in tasca per prendere l’arma, suo fratello lo sta già colpendo ripetutamente.
Giuseppe si affloscia come un pallone bucato e pozza di sangue si forma sotto di lui in pochi istanti, senza nessuna speranza di sopravvivere oltre i prossimi 20 minuti.
Vincenzo, invece, lascia cadere il coltello vicino a suo fratello e torna a casa, saluta la moglie e i figli, poi va a costituirsi dai Carabinieri del paese.
– Ho ammazzato mio fratello Giuseppe a colpi di coltello e ho ferito l’altro mio fratello Fedele…
Il Maresciallo Giovanni Billeci fa rinchiudere Vincenzo in camera di sicurezza e va ad accertarsi dei fatti.
Nella casa della madre dello Spadafora Vincenzo è stato rinvenuto il cadavere di Spadafora Giuseppe che presenta numerose ferite da punta e taglio: una alla regione mentoniera sinistra, una sulla regione laterale del collo sinistro e precisamente sulla regione carotidea, una ferita a otto centimetri dalla clavicola sinistra penetrante in cavità, una sulla regione deltoidea sinistra, tre ferite penetranti in cavità nelle adiacenze della colonna vertebrale, una ferita sulla coscia sinistra. In tutto fanno sette.
Poi va a casa di Fedele in compagnia del dottor Agostino Milanese per provvedere alla sutura delle ferite, quattro in tutto: una alla schiena, due alla mano sinistra e l’ultima sul braccio destro. Se la caverà in una ventina di giorni.
– Lo scorso anno, nel mese di febbraio, rientravo dalla marina ove lavoravo e quando passai con la littorina dinanzi al casello ferroviario nei pressi di Adami, ove abitava mio fratello Giuseppe, mi affacciai allo sportello e feci vela in segno di saluto a mia cognata, questa per tutta risposta e ad alta voce mi disse: “Vai a Bianchi a raccogliere le corna che ti fa tuo fratello!”. Arrivato alla stazione di Bianchi, trovai un manovale che, alla presenza del capostazione, mi disse di andare alla mia casa a Palinudo ove avrei trovato mio fratello che mi faceva le corna, al che il capostazione fece: “Il fratello Peppino, essendo un giovane migliore, se ne frega di tutti!”. Io mi urtai al sentire ciò e mi avviai per rientrare a casa, allorché nella mia visione vidi un angelo che mi tranquillizzò, pertanto continuai la mia strada. Immediatamente dopo il paese, vicino al ponte, incontrai mio fratello Giuseppe che veniva verso Bianchi e io dissi a lui di non frequentare la mia casa durante la mia assenza in quanto il pubblico parlava di una pretesa relazione adulterina tra lui e mia moglie. Per tutta risposta fece un sorriso e continuò la sua strada. Altra sera, nel rientrare dalla marina a casa mia, una vicina di casa mi disse: “vai a casa che trovi a tuo fratello Giuseppe coricato con tua moglie”. Io andai a bussare e notai che mia moglie, pur avendo risposto subito, si trattenne un pochino prima di aprire. Appena venne ad aprirmi mi comunicò che c’era mio fratello Giuseppe coricato in un lettino vicino al letto matrimoniale. Il solito angelo mi venne in visione tranquillizzandomi, tanto che mi avvicinai a mio fratello che era sveglio, baciandolo. Mia cognata, la scorsa estate, mi disse: “Tu che dici di essere malandrino e che non sopporti nessuna onta che ti si possa fare, perché non accoltelli tuo fratello Giuseppe che ha violentato con la forza tua moglie avendo con lei relazioni carnali?”. Io pensai subito di vendicare l’onta che mi faceva mio fratello, ma il solito angelo mi tranquillizzò. In ogni modo pensavo sempre al modo come potevo vendicare dell’onta che mio fratello mi faceva. Giorno 11 o 12 febbraio, non ricordo, mentre dormivo, il solito angelo mi comparve e mi disse che era giunto il momento di vendicare l’onore della mia famiglia, perché soltanto adesso era permesso da Dio, quindi me ne dovevo andare a Bianchi e preventivamente dovevo avvertire mio suocero perché lui o mio cognato mi accompagnassero. Tale visione si ripetette per per tutte le sere successive e cioè fino al giorno 9 marzo, giorno in cui rientrai a Bianchi. Avvertii mio suocero raccontandogli il fatto dell’angelo ma questi mi prese per pazzo e mi accompagnò fino a Bianchi mio cognato. Il solito angelo mi aveva anche avvertito che dovevo uccidere sia mio fratello Giuseppe che mio fratello Fedele, ma io, contravvenendo ai suoi ordini, decisi di uccidere solo Giuseppe, perdonando Fedele. Lo stesso angelo mi proibì recisamente di non uccidere mia moglie in quanto non aveva colpa perché dovevano essere i miei fratelli a rispettarla. La sera di domenica andai a letto e verso le 23,00 mi comparve il solito angelo il quale mi impose di vendicarmi del disonore che i miei fratelli avevano portato nella mia famiglia, avvertendomi che essi sarebbero entrambi venuti a casa… mi avvicinai a Giuseppe, estrassi il mio coltello da pastore a manico fisso e, afferrato mio fratello per il collo, gli dissi che doveva pagare l’onore della mia famiglia e, sì dicendo, gli immersi il coltello nella gola…
Il Maresciallo è sconcertato, Vincenzo Spadafora è sincero o sta simulando di avere problemi mentali?
– Domenica mattina vidi che si fece la croce e quindi ripetette numerose volte parole che mi sembrarono strane e cioè: “La Madonna… Gesù Cristo… Angelo Custode…”. Queste parole le ripetette altre volte durante la giornata ed anche il giorno seguente, tanto che io m’impressionai e pensai ad un’improvvisa pazzia… – racconta la moglie di Vincenzo.
– Ma vi ha mai rinfacciato una vostra relazione adulterina con suo fratello Giuseppe?
– Cosa? No, mai!
– La buonanima di Giuseppe ha mai dormito a casa vostra? Vostro marito sostiene di averlo trovato coricato nel lettino accanto al letto matrimoniale…
– È assolutamente falso!
– Vi siete accorta se prima di domenica aveva dato segni di alienazione mentale?
– Mai precedentemente aveva dato segni di alienazione mentale e mai aveva parlato di angelo custode o altre cose del genere…
Vengono ascoltati molti testimoni e nessuno ha mai sentito parlare della relazione tra Giuseppe e la moglie di suo fratello. Angelina è una donna onestissima, al di sopra di ogni sospetto, così come Giuseppe.
Poi, il 16 luglio, il Giudice Istruttore decide che è il caso di sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica e inoltra la richiesta. Il 28 agosto 1946 il professor Filippo Saporito, Ispettore Generale Sanitario del manicomio giudiziario di Aversa, comunica che Vincenzo Spadafora è stato ricoverato il 15 dello stesso mese e la perizia è affidata al dottor Pasquale Coppola.
Quando abbiamo, per la prima volta, visitato lo Spadafora all’atto dell’ammissione in questo Istituto, abbiamo osservato un uomo sorridente, sereno, apparentemente sicuro di sé, facile nella parola ma corretto nei modi.
Dava, in altri termini, l’impressione di una persona sufficientemente equilibrata, cosciente di sé, tanto da sembrare subito orientato dei fini delle nostre domande per cui fu pronto a rassicurarci sulla sua sanità mentale, rimettendosi, tuttavia, al nostro giudizio se, per caso, lo si volesse agevolare…
Appariva, in breve, sveglio nell’intelligenza ed un giudizio sommario di equilibrio psichico si sarebbe dato se, a ben guardare, la mente non fosse apparsa imbrigliata in due complessi ideativi che avrebbero avuta la massima importanza nel determinismo delittuoso, quali egli li enunziava: motivi di onore e di difesa; i primi riposti nella certa relazione amorosa del fratello con la moglie, i secondi nella reazione alla quale egli fu costretto dopo che il Giuseppe, in seguito ad uno scambio di parole e schiaffi, aveva posto mano alla pistola. In quella prima seduta ed in altre si aveva l’impressione esatta di una lucidità mentale sconcertante, tanto che, senza la scorta degli atti processuali, appariva indubbio l’equilibrio psichico del soggetto. E tale giudizio appariva ribadito dall’ostinazione dello Spadafora a non ritenersi un pazzo. Attingendo, invece, alla fonte processuale, si è potuto contestare questo o quell’elemento al soggetto, mai smuovendolo, tuttavia, dalla sua posizione. L’Angelo!… si, è stato sempre la sua guida, quello che, al momento opportuno gli dettava regole per il comportamento da tenere, quello che gli ordinò, infine, essere giunto il momento di agire. La moglie!… nessuna colpa da attribuirsi ad essa che non poteva essere colpevole se un uomo la desiderasse e la costringesse ad atti colpevoli.
Così inquadrato il delitto, il nostro uomo crede poter rivendicare i suoi diritti di marito tradito, non solo, ma anche di fratello di uno che non seppe e non volle non contaminare il cognome che portava.
Il dottor Coppola osserva che dopo un certo periodo di permanenza in manicomio, “l’angelo” è sparito dal suo orizzonte mentale ed ora Vincenzo appare perfettamente inquadrato nel tempo, nello spazio, sulle persone, sulla sua posizione giuridica.
Ma c’è una funzione che rimane compromessa ed è la funzione ideativa. Dicemmo al principio di questo capitolo che la mente dello Spadafora è imbrigliata e la parola, in senso psichiatrico, è dimostrativa dell’intoppo psichico che il soggetto incontra lungo il cammino del suo pensiero: il tradimento del fratello è incontestabile; tutti quelli che hanno testimoniato il contrario hanno commesso un falso; in libertà tutti l’avvertirono della tresca illecita e le prove suffragano le parole. In questo complesso non agisce nessun ragionamento efficace. Esso è fisso e inamovibile e priva il soggetto di ogni azione di autocontrollo, di ogni possibilità di autocritica e di giudizio, dando così rilievo a quella particolare forma mentis cui si è accennato. È l’unico rilievo importante, ma è sufficiente a spianare la via alla diagnosi clinica. Lo Spadafora vive nella sua convinzione ed il suo pensiero, la sua coscienza sono inaccessibili alle altrui osservazioni; la sua costellazione mentale è ingombrata dalle sue idee e, come logica conseguenza di ciò, si ha che anche gli affetti, i sentimenti, sono adescati, attratti da quei pensieri, quella coscienza e, per inevitabile corso dei sintomi, deviati nelle loro estrinsecazioni.
Lo Spadafora sorride alla memoria del fratello ucciso, di cui vede solo il tradimento; sorride perché è sua la convinzione di tale tradimento, anche se altri la possono contestare. Si rendono così scialbi eventuali moti affettivi perché tutte le attività psichiche sono agli ordini di quell’io morboso che oggi impera e si proietta dalla personalità dell’imputato. Tutte le attività psichiche sono compresse perché nel dominio della coscienza del soggetto detta imperiosa la sua legge il delirio.
Nella personalità di un ammalato qual è lo Spadafora, psicologia e psicopatologia sono capitoli che si incontrano, si confondono, si uniscono. Ciò perché la malattia di questi sorge appunto fin dalla sua formazione. E le anomalie funzionali non possono non affermarsi anzitutto nella psicologia dell’individuo, per poi dare germogli psicopatologici.
Qual è la malattia del nostro uomo? La paranoia, che è, in sintesi, una psicosi cronica ad evoluzione progressiva. È una malattia in cui è il delirio il nucleo propulsore dello speciale dinamismo mentale del soggetto ed è il delirio che finisce col travolgere l’intera personalità indebolendola e distruggendola.
E la paranoia di cui soffre Vincenzo Spadafora ha un nome preciso: delirio paranoico geloso.
Il dottor Coppola, quindi, conclude: lo Spadafora rifugge, oggi, da qualsiasi giudizio di malattia mentale. Convinto della sua giusta causa rigetta ogni idea di malattia, deridendo a tale supposizione ed accettandola solo se essa possa giovargli.
Spadafora Vincenzo, al momento del commesso reato, era, per infermità, contrassegnata da un delirio paranoico geloso, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere.
Trattasi di persona socialmente pericolosa.
È il 12 maggio 1947.
Due mesi e mezzo dopo, la Sezione Istruttoria, ricevuta la perizia psichiatrica, emette la sentenza:
Non doversi procedere a carico di Spadafora Vincenzo perché non imputabile ed ordina il ricovero dello stesso in un manicomio giudiziario perché socialmente pericoloso.[1]
Un ergastolo mascherato.
[1] ASCS, Processi definiti in istruttoria.
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