È la mattina di domenica 28 settembre 1914 e il Comandante delle Guardie Municipali di Amantea, Luigi Molinari, si trova nella frazione di Campora San Giovanni per affari privati quando viene avvicinato dal cantiniere Antonio Metallo e dal contadino Gennaro Liparoti:
– Salutiamo, comandante – gli fa Liparoti portandosi due dita alla fronte per rafforzare il saluto.
– Salutiamo – risponde Molinari imitando il gesto dell’altro.
– Vi dovrei dire una cosa…
– Sono fuori servizio, ho da fare, venite a cercarmi domani – cerca di tagliare corto.
– Ma… veramente… può essere grave e importante, non posso aspettare domani, ve la devo dire subito e poi quello che volete fare, fate – insiste Liparoti.
– E va bene. Avanti, parla ma sbrigati!
– Ecco… ieri notte, potevano essere le dieci, io dormivo e mia moglie mi ha svegliato perché ha sentito un colpo di fucile provenire dalla casa dei nostri vicini. Io mi sono alzato, mi sono affacciato e ho chiamato tutti e due, marito e moglie, ma non hanno risposto. Poi sono uscito e sono andato a chiamare Ruggero Natale che sta a un centinaio di metri e gli ho chiesto di venire con me per vedere che cosa fosse successo, ma lui mi ha risposto che non era ora di andare a vedere perché chiunque avesse sparato poteva essere ancora lì e sparare pure a noi. “Aspetta che faccia giorno e poi vai a chiamare le guardie” mi ha detto e così ho fatto. Temo che ci sia scappato il morto. O il marito si è sparato o ha ammazzato la moglie.
Molinari fa una smorfia, butta a terra il mezzo sigaro spento che ha in bocca, lancia una terribile bestemmia e, tralasciando i propri affari, corre in contrada Fravitto, dove dovrebbe essere successo il fatto. “Se è un falso allarme, il morto lo faccio trovare io ai Carabinieri!” pensa mentre si asciuga il sudore.
La casa è in un grande fabbricato, abbastanza malridotto e isolato. Vi si accede, salendo una scaletta in pietra di sei gradini, attraverso un pianerottolo all’aperto; la porta è socchiusa e Molinari la apre con cautela. La lama di luce che penetra all’interno della grande stanza mette subito in evidenza qualcosa che fa trasalire l’uomo: stesa sul pavimento c’è una donna immersa in un lago di sangue. Un cagnolino nero è accucciato accanto al corpo con la testa sull’addome della donna. La guardia entra, constata che la donna è morta, accarezza il cane e lo porta via richiudendo la porta a chiave dietro di sé, mentre accorrono i parenti della donna gridando e disperandosi.
– Mi dispiace, nessuno può entrare fino a che non intervengono le autorità – poi corre in paese per avvertire il Sindaco e i Carabinieri
Il Pretore di Amantea Tommaso Carnevale e il Maresciallo Paolo Briatico fanno fatica, quando arrivano, a passare tra i congiunti di Anna Gagliardi, la vittima. Prendono appunti sullo stato dei luoghi: il cadavere di Anna è disteso ai piedi di un tavolino coperto da una incerata sul quale c’è una zuppiera, chiusa da un piatto, piena di riso e verdura, poi un lume, due tazze grandi, due tazze più piccole, due tazzine da caffè con i relativi piattini, una zuccheriera, due bicchieri piccoli e uno grande con il manico e una bottiglia di gazzosa vuota.
Accanto al cadavere una borra grossa di cartuccia rotta in due. Il resto della stanza è zeppa di casse, tre sedie e sopra una di queste un vestito della festa da donna, ceste contenenti grano e granone. A una parete sono appese le immagini di San Francesco da Paola e della Madonna Addolorata. Tutto, cadavere a parte, è in perfetto ordine. Anche la camera da letto è in ordine ed è evidente che nessuno, la sera prima, vi si è coricato. Le immagini di San Giuseppe e della Madonna di Pompei sembrano guardare verso un crocefisso appeso accanto a un’acquasantiera.
– Molinari, a che ora vi ha detto il vicino che c’è stato lo sparo? – chiede il Maresciallo Briatico.
– Verso le dieci…
– Venite con me che andiamo a fare quattro chiacchiere con i vicini – gli dice. Poi, rivolto a un sottoposto, continua – sono arrivate notizie del marito?
– Nossignore, signor Maresciallo.
L’abitazione di Gennaro Liparoti e di sua moglie Teresa Russo è nello stesso fabbricato, ma al pianterreno.
– Ieri sera mio marito e Giuseppe Brusco, il marito della morta, sono rientrati insieme verso le otto. Io ero con Anna ad aspettarli e non appena sono arrivati lei ha detto al marito che la cena era pronta e sono rincasati. Lui, come al solito, aveva il fucile in spalla. Anche noi siamo rincasati e dopo aver mangiato siamo andati a letto. Verso le dieci e mezza ho sentito uno sparo e ho svegliato Gennaro che si è affacciato e ha chiamato: “Giuseppe! Anna!” ma nessuno ha risposto e così è andato a chiamare Ruggero, ma lui non ha voluto entrare in casa con mio marito, consigliandoci di denunciare il fatto stamattina e così mio marito ha fatto.
– Sapete se andavano d’accordo?
– Litigavano spesso, ma ieri sera non abbiamo sentito niente…
I due lasciano la donna e il Maresciallo non è per niente convinto di quella ricostruzione.
– Secondo me sta mentendo – dice a Molinari – in casa tutto è in perfetto ordine e nessuno dei due si è seduto a tavola, né è andato a letto. Che hanno fatto in quelle due ore e mezzo? Sono stati in piedi a guardarsi negli occhi? Quello la moglie l’ha ammazzata appena hanno messo piede in casa. Che interesse ha la Russo a dare quella versione?
Le cose si ingarbugliano ancora di più quando viene interrogato Gennaro Liparoti, il marito di Teresa Russo, che conferma la versione della moglie ma fa un’affermazione a proposito dei rapporti tra la coppia di vicini, che fa trasalire il Maresciallo:
– Si volevano bene, non li ho mai sentiti litigare…
Esattamente il contrario di quanto ha affermato sua moglie. Allora bisogna indagare per bene non solo sui rapporti tra la vittima e suo marito, ma anche al di fuori della famiglia e gli inquirenti scoprono delle cose molto interessanti.
Giuseppe e Anna si sposano nel mese di settembre del 1912, ma pare che lui non sia particolarmente entusiasta di convolare a nozze e dopo tre o quattro giorni di convivenza si confida con un amico dicendogli di non avere trovato la ragazza vergine. “Se così è, hai sbagliato, avresti dovuto riportarla dalla madre la prima notte, appena te ne sei accorto. Che ti lamenti a fare adesso? Chi ti crede?” lo rimprovera l’amico. In paese, però, tutti ritengono Anna una donna dai ferrei principi morali e nessuno crede a ciò che racconta Giuseppe. Fatto sta che già dal risveglio dopo la prima notte di matrimonio, i rapporti tra i due si fanno sempre più tesi e a farne le spese è sempre la povera Anna che le prende di santa ragione un giorno si e l’altro pure per quasi un anno, poi il 25 agosto 1913, stanca e pesta, va dai Carabinieri e denuncia il marito per lesioni personali. Non ha testimoni perché le bastonate le prende sempre nella casa isolata in cui abitano, ma i Carabinieri le credono, soprattutto per i trascorsi del marito: in paese lo descrivono come un giovine malvagio e, soprattutto, perché è già stato condannato, appena adolescente, una volta per lesioni personali e un’altra volta, a 21 mesi di reclusione, per l’omicidio premeditato del fratello uterino. Ma questa volta Giuseppe evita il carcere perché Anna non firma la querela e viene prosciolto in istruttoria. Anna, in cambio di questo favore, ottiene la separazione, le botte finiscono e lei torna da sua madre. Giuseppe va ad abitare in contrada Principessa e comincia a lavorare come garzone in casa di Giovanni Pate. Qui conosce Gennaro Liparoti e sua moglie Teresa Russo e, così dice la voce pubblica, tra Giuseppe e Teresa nasce una tresca amorosa.
Poi Giuseppe si ammala di broncopolmonite e Teresa lo assiste con molto slancio, così riferiscono molti testimoni, ma chiama al suo capezzale anche Anna, che generosamente accorre per accudirlo. Il comportamento di Giuseppe in questa circostanza è ambiguo. A momenti di slancio affettivo verso Anna, quando le sue condizioni sembrano peggiorare, seguono momenti in cui la chiama con i peggiori epiteti che si possano immaginare, arrivando addirittura a minacciare di ucciderla con la rivoltella che tiene sempre sotto al cuscino. “Prendigli la rivoltella e dammela che la nascondo” dice Anna a Teresa. “Gliela prendo e la porto a don Giovannino” le risponde quella. Ma la rivoltella finisce in una cassapanca ai piedi del letto, dove una testimone giura di averla vista. E deve essere proprio così perché Giovanni Pate esclude categoricamente che Teresa Russo gli abbia mai consegnato la rivoltella.
Una volta guarito, Giuseppe torna in ginocchio da Anna che, dopo molte insistenze, si lascia convincere e i due tornano insieme andando ad abitare nella casa di contrada Fravitto, dove lui ha preso un terreno in colonia. È la metà del mese di luglio 1914 e Giuseppe ha in serbo per la moglie una sorpresa: in un quartino del grande fabbricato andranno quasi subito ad abitare anche Gennaro e Teresa!
Molti giurano di aver visto Giuseppe e Teresa in atteggiamento sospetto, ma nessuno è disposto a mettere nero su bianco che tra i due ci sia una relazione. Deve essere proprio così, pensano il Maresciallo Briatico e il Pretore Carnevale, altrimenti non si spiegherebbero le contraddizioni in cui sono caduti i coniugi Liparoti. Qualche cosa in più circa il movente potrebbe dirla proprio l’assassino, nel frattempo arrestato, ma le sue affermazioni sono smentite da molti testimoni:
– Quando i sospetti sulla sua condotta erano abbastanza fondati, una sera volli affrontarla e le domandai se era vero che mi tradiva. Mi rispose due volte di no, ma alle mie insistenze finì col dire di si. Le chiesi: Ma è certo? E lei rispose: Si, è certo. Allora presi il fucile che avevo addosso e le sparai un colpo quasi a bruciapelo. Poi sono scappato…
Giuseppe non sa che questa ammissione potrebbe portare alla rovina anche Teresa perché è chiarissimo che se le cose sono andate davvero così, Anna non è stata uccisa alle 22,30 ma subito dopo essere rientrati a casa, cioè alle 20,00 e Teresa ha raccontato delle fesserie. Ma, come dicevamo, il motivo addotto da Giuseppe è smentito da almeno tre testimoni.
– Ho incontrato Brusco dopo che ha ammazzato la moglie, mentre si nascondeva nel bosco e mi ha detto: Ho ammazzato la capretta! Io gli ho chiesto perché l’avesse fatto e lui non ha accennato minimamente alla infedeltà della moglie – dice Geniale Rossi.
– Il 30 settembre, dopo successo il fatto, avevo finito di raccogliere olive insieme a Giuseppina Bruno quando si avvicinò Giuseppe Brusco che era latitante. Gli ho chiesto perché avesse ucciso la moglie e lui rispose: Perché durante la giornata di sabato mi ha lasciato morto di fame! – giura Francesca Pino e le sue parole vengono confermate anche dall’altra donna presente all’incontro.
La mazzata a Giuseppe – e forse anche a Teresa – la tira una ragazzina di otto anni, Domenica De Luca, che quattro giorni prima dell’omicidio ha visto seduti insieme su un gradino di casa Teresa e Giuseppe. La donna, parlando ad alta voce diceva all’uomo: O le fai una rottura di ossa da farla stare a letto per tre anni, o le chiavi una botta! Proprio in quel momento sulla strada apparve la povera Anna e i due fecero silenzio. Domenica raccontò tutto alla mamma, che non diede peso alla cosa pensando che la bambina avesse capito male, ma subito dopo il fatto, la bambina ricordò la circostanza alla madre dicendole: “Non te l’avevo detto che avevano promesso di ammazzarla?”
Teresa rischia grosso e si difende con le unghie durante i confronti a cui viene sottoposta, ma i suoi accusatori sono implacabili: lei ha istigato Giuseppe ad ammazzare Anna, che tutti descrivono come una gemma di onestà.
Giuseppe continua a sostenere di avere agito per difendere il proprio onore e adesso afferma di aver saputo che la mattina dell’omicidio, era domenica, la moglie era stata in casa di Domenico, nobile, Cavallo, assistente del Genio Civile e ultimo amante in ordine di tempo attribuito alla moglie.
– Ma quale amante ha mai incontrato la domenica mattina! Anna era in chiesa! – afferma Giovanna Russo.
A questo punto gli inquirenti pensano che l’istruttoria possa essere chiusa e spediscono gli atti alla Procura Generale del re di Catanzaro per chiedere il rinvio a giudizio di Giuseppe Brusco per uxoricidio, tenendo fuori Teresa Russo, che così si salva perché le prove sono insufficienti. La Procura Generale formula l’accusa e chiede il rinvio a giudizio. È l’11 febbraio 1915.
Non c’è il tempo di notificare la decisione all’imputato: dal carcere di Cosenza arriva, lapidaria, una brevissima nota che ha per oggetto Brusco Giuseppe Giovanni da Amantea, nella quale è scritto:
Per conveniente notizia, partecipo alla S.V. la morte del detenuto al margine indicato.
Anche l’azione penale è estinta.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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