Maria Luisa Reda ha 11 anni quando, all’inizio del marzo 1899, suo padre Giuseppe la porta alle Destre, nel territorio di Mendicino, per far legna. Le gemme degli alberi sono ancora un abbozzo nel bosco fitto e silenzioso e in giro non c’è anima viva. Giuseppe posa a terra la scure e aspetta che la bambina lo raggiunga.
– Alzati la gonnella – le ordina.
– Perché, papà? – gli chiede con innocenza.
– Perché… perché… – non trova subito una risposta. Poi, sbottonandosi i calzoni, aggiunge – facciamo un bel gioco, un gioco segreto…
L’urlo di dolore della bambina riecheggia sinistramente nel bosco, mentre la mano possente e callosa di Giuseppe è svelta a tapparle la bocca.
Il tempo dei giochi è finito per Maria Luisa. Adesso comincia l’inferno.
– Perlamadonna se dici una parola ti ammazzo! – la minaccia avvicinandole il taglio della scure alla testa. Poi si mette a tagliare la legna con una furia mai vista prima dalla figlia.
Maria Luisa trema mentre se ne sta rannicchiata abbracciandosi le ginocchia. Capisce che suo padre ha fatto una cosa sporca e che niente sarà più come prima. Immersa nel suo dolore non si accorge nemmeno della macchia di sangue che si allarga sulla sua gonnella.
Se ne accorge però sua madre, Giuseppina Reda, quando poco prima del tramonto padre e figlia tornano a casa.
– Che hai fatto? – le chiede preoccupata.
– Niente… niente, mà – le risponde cominciando a tremare.
– Chi è stato? Devi dirmelo, dimmelo bella di mamma tua, dimmelo! – insiste mentre gli occhi le si gonfiano di lacrime e di rabbia. Ha capito, ma in cuor suo non vuole ammetterlo. Vuole sentire quel nome, quel maledetto nome.
– Pa… papà! – confessa gettandole le braccia al collo e lasciandosi andare a un pianto liberatorio. Giuseppina la stringe, poi si morde il pugno meditando vendetta.
– Vai un po’ fuori, lasciami sola con tuo padre… – Maria Luisa ubbidisce.
Giuseppina affronta il marito che per tutta risposta la riempie di botte col dorso della scure, sempre a portata di mano, poi fa rientrare in casa Maria Luisa e riempie di botte anche lei.
– Se dite una sola parola vi faccio a pezzi con questa – le minaccia facendo roteare la scure sopra la testa.
Adesso nell’inferno vivono tutte e due. Attanagliate dalla paura non parlano e la cosa rimase sepolta nel focolare domestico. Ma Giuseppina da questo momento non lascia da sola sua figlia nemmeno per un minuto. Se il marito ci riproverà o morirà lui o moriranno loro due insieme.
Anche per Giuseppe la vita cambia. Rimase per qualche tempo taciturno, sembrando che un senso di rimorso lo tormentasse. Ma il veder crescere negli anni la sua preda riaccese in lui il desiderio di godere ancora dei suoi favori. Ogni tentativo, ogni progetto di ripetere quell’atto immondo però vanno, per fortuna, a vuoto e la sua frustrazione si tramuta in ogni sorta di violenza ed ognuno può immaginarsi quale inferno ha regnato in quella famiglia.
Sono ormai passati sei anni e nel settembre del 1905 ecco che per Giuseppe si presenta l’occasione sperata. Sua moglie è costretta ad andare a Cosenza e lascia Maria Luisa, che adesso ha diciassette anni, da sola in casa. È ancora buio quando si avvia. Maria Luisa dorme, come dorme il figlio minore, il tredicenne Raffaele. Giuseppe, furtivamente, si corica nel letto della figlia e tenta di violentarla di nuovo, ma la ragazza si sveglia e comincia a urlare. Si sveglia anche Raffaele che si lancia addosso al padre riuscendo a sventare la violenza, ma la furia dell’uomo si abbatte su di lui e ne esce pesto, come ne esce pesta anche Maria Luisa.
Quando la madre ritorna dalla città capisce che non possono più andare avanti in quel modo, ma non avendo alternative preferisce restare e subire ancora. Chi decide di non subire oltre è Raffaele che se ne va di casa e comincia a lavorare come un matto per mettere da parte i soldi per andarsene Allamerica e ci riesce. Non tornerò più qui finché quell’indegno non sarà scomparso dalla faccia della terra, promette a sé stesso quando con un fagotto sulle spalle lascia il paese.
Quell’indegno ci riprova altre tre volte a violentare sua figlia senza riuscirci e finalmente Giuseppina e Maria Luisa riescono a liberarsi dal giogo e lo denunciano. È il 13 giugno 1909 e sono passati dieci anni da quando l’inferno è cominciato.
Il Brigadiere Giuseppe Carenza arresta Giuseppe per maltrattamenti, lesioni e violenza carnale nei confronti della figlia ma il mostro, nonostante tutte le testimonianze convergenti, riesce ad ottenere la libertà provvisoria e il primo pensiero che ha è quello di farla pagare alle due donne.
Giuseppe torna in paese e sorprende moglie e figlia davanti alla porta di casa. Cercano di chiudersi dentro ma non ci riescono. L’orco entra e le colpisce tutte e due prima a calci e pugni, poi afferra la scure e le batte col dorso come al solito, ma deciso a farla finita questa volta.
Le due sventurate urlano a più non posso facendo accorrere i vicini, che riescono ad evitare la tragedia. Giuseppe scappa e quando arrivano i Carabinieri non lo trovano subito, ma dopo poche ore lo arrestano e lui si dice innocente, che è tutta una messa in scena della moglie e della figlia che si vogliono sbarazzare di lui. Anche questa volta gli credono e viene rimesso in libertà, ma intanto Giuseppina e Maria Luisa lasciano quella casa maledetta e se ne vanno in una casetta colonica disabitata. Sono i primi di agosto del 1909.
Sembra che un po’ di pace sia finalmente arrivata per mamma e figlia, ma dura poco.
La mattina del 7 ottobre Giuseppina e Maria Luisa, ormai ventunenne, vanno in contrada Ciermo a raccogliere mele con i tre fratelli Madrigrano. È qui che le raggiunge Giuseppe con la sua fidata scure sulle spalle.
Nel campo c’è una casetta dove i raccoglitori ammassano le mele ed è lì che le due donne cercano scampo non appena vedono Giuseppe avvicinarsi di corsa.
– Dovete tornare a casa, non vi faccio niente! Vedete? Butto la scure – dice loro lanciando lontano l’arma.
– Come facciamo a crederti dopo tutto quello che ci hai fatto in questi anni? Ti sei scordato? Ti sei scordato quello che hai fatto a tua figlia? – gli risponde Giuseppina.
– Acqua passata…
– Acqua passata un bel niente! Vattene che è inutile insistere – replica la moglie.
Spazientito, Giuseppe getta la maschera.
– Se vuoi rimanere viva devi venirtene con me, se poi vai in cerca della morte fa pure i comodi tuoi!
– Meglio morire piuttosto che tornare a casa con te! – gli risponde.
Giuseppe perde l’ultimo barlume di ragione e si butta contro la porta, sfondandola. Afferra la moglie per i capelli e comincia a tempestarla di calci e pugni. Maria Luisa sembra paralizzata e se ne sta in un angolo, poi per fortuna arrivano i tre fratelli Madrigrano e bloccano Giuseppe. È a questo punto che Maria Luisa si avvicina al padre, estrae una rivoltella dal tascone del grembiale e gli spara un colpo quasi a bruciapelo colpendolo all’addome, poi scoppia a piangere e corre via.
Suo padre è fortunato, la rivoltella è di piccolo calibro e il colpo è stato tirato obliquamente; la pallottola entra nella fascia muscolare dell’addome e si ferma senza provocare grossi danni.
Venti giorni salvo complicazioni, dice il medico dopo avergli estratto la pallottola, poi lo consegna al Brigadiere Carenza, il quale, conoscendo bene la situazione, interroga il ferito:
– Non so spiegarmi per qual motivo mia moglie e mai figlia abbiano, da qualche tempo a questa parte, fatto divisamento di uccidermi. Io nulla di serio ho contro di loro commesso all’infuori di qualche atto lecito e di qualche lieve schiaffo per causa giustissima. Ciò non pertanto io ho sempre insistito presso mia moglie perché tornassero presso di me e che la finissero una buona volta con il loro contegno ed operato inqualificabile.
Un sant’uomo!
Maria Luisa intanto si costituisce e spiega al Giudice Istruttore Macrì:
– La mia calma vanì e dato di piglio ad una rivoltella che avevo in tasca e che asportavo da qualche giorno, appunto per difendermi da quel bruto, gliene esplosi contro un colpo, che per ventura sua non fu letale. Veda la giustizia se il mio operato deve ricadere nel rigore del codice penale…
La ragazza viene processata per lesioni personali, ma anche suo padre viene processato per le lesioni procurate alla moglie. Il 21 aprile 1910 il Tribunale di Cosenza emette la sua sentenza: Giuseppe è colpevole di lesioni lievi nei confronti di Giuseppina e lo condanna a tre mesi di reclusione. Maria Luisa viene assolta.
Ma il calvario delle due donne non è ancora finito. In carcere Giuseppe coltiva e fa crescere il suo odio, meditando vendetta.
Quando esce dal carcere la sua presenza in paese è impalpabile, si muove come se fosse un fantasma, salvo apparire all’improvviso davanti alla moglie, ormai ritenuta la causa principale della sua rovina, per minacciarla di morte se non torna a casa.
Maria Luisa vive guardinga e sotto una cappa di paura. Giuseppina invece è costretta ad andare avanti e indietro: deve pur lavorare per vivere perché i soldi che suo figlio Raffaele le manda dall’America sono pochi e non bastano. In ogni caso, quando cammina per strada, bada a non restare mai da sola.
La mattina presto del 5 settembre 1910 Domenico Reda, 18 anni, sta accompagnando sua zia Giuseppina alla fontana dell’Arella per riempire un barile di acqua. Con loro c’è anche Rosaria Reda.
Giuseppina sta salendo i gradini che da un sentiero salgono alla fontana posta proprio accanto al ponte, su un lato della strada che da Mendicino porta a Carolei, quando vede sbucarle davanti, uscendo da sotto il ponte dove si era nascosto, suo marito il quale con atteggiamento tranquillo, le fa:
– Che c’è, mia signora? – Giuseppina è sconcertata, non sa che rispondere, né che fare. Il marito allora approfitta del momento e le salta addosso cominciando a tempestarla di colpi con un grosso bastone, con tutta la violenza possibile.
– Si ca mi ne viegnu… si ca mi ne viegnu… – dice cercando di placare la furia del marito.
Ma Giuseppe non si calma. Butta il bastone, afferra la moglie, mezza tramortita, per i capelli, tira fuori un coltellaccio a manico fisso, uno scannaporci, e la colpisce una prima volta all’addome e poi due volte al petto. Giuseppina boccheggia, moribonda, e il marito la lascia cadere a terra. Ha il respiro affannato per lo sforzo, ma la mente è lucida e, prima che la moglie esali l’ultimo respiro, per massimo dispregio, la calpesta.
Giuseppe si allontana dal luogo del delitto e diventa uccel di bosco. Maria Luisa denuncia il padre per l’ultima volta.
– Senza dubbio mio padre ha meditato lungamente il delitto perché parecchie volte egli si nascose in alcuni luoghi ove sapeva che noi dovevamo passare, armato sempre; e se non poté prima effettuare le sue minacce, ciò avvenne perché noi fummo da gente pietosa avvertite e tornammo indietro.
Giuseppe si costituisce direttamente in Tribunale dopo più di un mese e racconta:
– È falso che io avessi abusato di mia figlia Maria quando costei aveva 12 anni e molto meno che avessi usato violenza contro la defunta mia moglie. La verità vera è questa che la defunta mia moglie mi ha sempre odiato, tanto da scacciarmi di casa e da indurre la mia figliuola a tirarmi un colpo di rivoltella. Scacciato da casa, mi trovavo nella disperazione; non avevo nessuno che mi assistesse, che mi facesse da mangiare, che mi lavasse la biancheria… La mattina del 5 settembre ero stato in casa di mio padre dove avevo mangiato e bevuto tre quarti di litro di vino. Il liquore mi aveva dato alla testa. Nel ponte Arella incontrai mia moglie, la supplicai ancora una volta per riconciliarsi con me. Ella non rispondeva, fu così che io, adirato, le tirai diversi colpi di bastone. Cadde per terra, si rialzò, si lanciò contro di me. Allora perdetti i lumi ed estratto un piccolo coltello, le tirai diversi colpi sull’addome, per i quali, disgraziatamente, ella morì. Nego in modo assoluto di aver premeditato il delitto. Non è logico pensare che io premeditavo il delitto, quando si rifletta che io non facevo altro che cercare di riconciliarmi con mia moglie perché sentivo forte il bisogno del suo affetto e di quello dei miei figliuoli. Sono oltremodo pentito di quello che è successo
Peccato che tutti i testimoni la pensino diversamente e lo giurino davanti alla Legge. Neanche i giudici gli credono e il 26 giugno 1911 la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello di Catanzaro lo rinvia a giudizio per omicidio premeditato e il 24 aprile 1914, finalmente, la Corte d’Assise di Cosenza emette la sentenza.
La Giuria popolare ammette che Giuseppe ha commesso il fatto con premeditazione, che non si trovava in stato di infermità mentale e che non concorrono a favore dell’imputato circostanze attenuanti. Tradotto in parole povere significa ergastolo, fine pena mai. Il suo avvocato propone ricorso per Cassazione. Rigettato. Le porte del carcere si chiudono definitivamente alla sue spalle, lasciando una scia di sangue e dolore.[1]
[1] ASCS, Processi penali.
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