CONOSCETE LA FAMIGLIA MONTALBANO?

I leggendari cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso e Carcagnosso
La lotta
sostenuta dalla popolazione onesta di Maierà fin dal 1920 – la denuncia fatta
contro un numeroso gruppo di giovinastri per associazione a delinquere non fu
presa molto seriamente dalla Procura del re di Cosenza, tanto che gli imputati
restarono quasi tutti a piede libero – per ottenere l’istituzione di una
caserma dei Carabinieri in paese al fine di contrastare l’arroganza e la
prepotenza dei malviventi è andata a buon fine nel 1925 e i risultati sono
subito evidenti: la cattura del pericoloso malavitoso Battista Biancamano, da
tempo latitante. Ma la cattura è seguita, dopo qualche mese, dalla sua evasione
dal carcere di Belvedere Marittimo e dalla sua uccisione durante un conflitto a
fuoco proprio con i Carabinieri della stazione di Maierà, tra un mare di
polemiche (Leggi la storia completa di Battista Biancamano). E forse sono proprio queste polemiche la causa per cui la caserma viene
soppressa subito dopo.
La sensazione
che ne hanno i delinquenti è che possono continuare indisturbati la loro opera
e così furti, rapine, stupri, minacce e sparatorie aumentano quotidianamente
senza che vengano sporte denunce, fino a superare ogni limite: le minacce di
morte a mano armata fatte da Arturo Biancamano (fratello del defunto Battista)
al Sindaco, costretto a dimettersi il 10 febbraio 1926, seguito, il 17 aprile
successivo, dall’intero consiglio comunale. Le autorità, forse riconoscendo
l’errore fatto, cercano di porvi rimedio istituendo in paese un posto fisso dei
Carabinieri e a comandarlo viene chiamato il Vice Brigadiere Saverio Laganà,
coadiuvato dai Carabinieri Giuseppe Rubertà e Francesco Petrone.
Laganà e i
suoi uomini si insediano a Maierà il 16 marzo 1926 con l’incarico preminente di
arrestare Arturo Biancamano e raccolgono molte lamentele e confidenze. Il Vice
Brigadiere comincia a fare sul serio indagando tutto e tutti. Mette alle
strette alcuni testimoni reticenti convincendoli a sottoscrivere delle querele
e la popolazione comincia a fare la fila per rivelare fatti e circostanze di
cui è a conoscenza o che ha direttamente subito. Il quadro che ne esce è
davvero sconsolante. Scrive Laganà: Trovammo
la popolazione tutta terrorizzata ed in preda ad indescrivibile allarme. Senza
distinzione di ceto, dall’umile ed onesto operaio all’Autorità di P.S. locale,
un coro unanime di proteste per la soppressione della stazione dell’Arma dei
RR.CC. e di disperati appelli per la protezione della vita e delle sostanze si
levava a noi per invocare la fine di uno stato di cose in rapporto alla P.S. e
di epurare l’ambiente dalla mala pianta della delinquenza che imperversava
contro tutti e tutto
. La gente adesso fa nomi e cognomi dei delinquenti e
Laganà riesce ad arrestare subito tali Agostino Greco, Michele Oliva, Francesco
Cardillo, Vincenzo Consiglio e Settimio Torrano accusati di essere affiliati
alla malavita locale. Il primo a sedersi davanti a Laganà è Agostino Greco il
quale, dopo qualche insistenza,
racconta tutto quello che sa dell’organizzazione, dai reati al reclutamento, al
giuramento, al codice di comportamento, al linguaggio cifrato, ai gradi: una
miniera di informazioni
Appartenni da circa due anni a questa parte
alla “famiglia Montalbano”, nome della nostra combriccola. Fui condotto da
Biancamano Arturo mediante minacce di vita se io non volevo appartenervi. Così
una sera nel luglio 1924, mediante pagamento di £ 25, in compagnia del suddetto
Biancamano mi recai in prossimità del cimitero di questo Comune e là, secondo
le loro idee, mi battezzarono. Mi fecero da compare Biancamano Arturo, capo bastone,
il fratello Oreste, camorrista, Guagliano Francesco, camorrista, Forte Filippo,
camorrista, Runco Giuseppe, camorrista (quest’ultimo aveva le manzioni di capo
giovane) e dopo che gli altri si sono messi attorno a me, Arturo Biancamano
proferì queste parole: “Con una mano caccio le stelle e con l’altra faccio
giorno e dico buongiorno; vi presento un picciotto d’onore franco e libero
senza nessuna macchia il quale vuole far parte della nostra onorata società” e,
dopo aver domandato ai presenti se nulla ostava da parte loro, mi diede due
baci; gli altri seguirono con uno per uno. Poscia mi disse: “La nostra famiglia
vi dà per dote cinque belle cose: politica, falsa politica, carta e apis,
umiltà, fedeltà e sperra (cioè il coltello). la politica vi servite per
trattare con noialtri, la falsa politica con i sbirri, la carta e apis per
segnare tutte le offese ricevute. L’umiltà per giuramento, fedeltà per essere
fedele alla nostra onorata famiglia, sperra per difendere voi ed i compagni”.
Poi mi ingiunse: “Compare vi abbiamo dato il battesimo, sapetelo tenere” e
contemporaneamente mi disse: “dovete pagare quel fiore e così vi presento
quest’albero d’onore: il tronco rappresenta il capo bastone e mi presentò
Biancamano Arturo, i rami rappresentano i camorristi, i fiori i picciotti
d’onore” e mi presentò ufficialmente le persone che ho appena nominato, più
tanti altri. La nostra società, come tutte le altre, veniva chiamata la
“famiglia Montalbano” e per conoscerci con quelli dei paesi circonvicini come
Diamante che è diretta da Magurno Salvatore (alias ‘u Russu), Grisolia da
Bellusci e Cipollina da Donati Giuseppe detto ‘U Spiranzatu. In società si
parlava un’apposita lingua che ogni affiliato doveva conoscere e che il capo e
gli altri si interessavano ad insegnarci ogni qualvolta avvenivano le riunioni
e così, ad esempio, i carabinieri si chiamavano ‘a giusta, il fazzoletto
‘u muffu, , la casa ‘a cupa, la rivoltella ‘a tufa, il
coltello ‘u cirinu, l’agnello o capra bramante; per dire stanotte
devo andare a rubare, si dice stambruna mivise nu sbrincu e mollu ‘u pizzicu;
il denaro ‘a pila, il rasoio ‘u specchiu, il maiale scarfaru,
le scarpe ‘e fanguse, le carte sfogliante. Per conoscere il
compagno si faceva la domanda: “Conoscete la famiglia Montalbano?” se l’interessato
la conosceva rispondeva: “La conosco, l’ho servita e la sto servendo”. Poi era
dovere dell’interessato a domandare per assicurarsi che non si trattava di
qualche persona estranea e gli diceva: “Osso, mastrosso e carcagnosso a nome
dei tre fratelli spagnuoli vi impongo per la prima, la seconda e la terza volta
fatemi grazia con chi devo parlare?”. Allora il domandato rispondeva, se
effettivamente apparteneva, s’era picciotto mezza cavetta, s’era camorrista, un
seggi-mastru. Quando un socio cambiava domicilio ed andava in un altro paese e
colà esisteva la società, per entrarci doveva chiamarsi l posto; prima si
doveva trovare un socio ed indirizzarlo al picciotto di giornata, sempre
facendosi riconoscere con le suesposte regole, e questo picciotto di giornata
aveva il dovere di presentarlo alla prima riunione. Qui se lo facevano entrare
alla buona non se ne parlava, se doveva entrare con forma e regola doveva
profferire queste parole: “Passo per novità che oggi appunto è arrivato un
picciotto franco e libero e affermativo, si chiama i suoi diritti bene e male come
gli spetta”. Il picciotto di giornata rispondeva: “Grazie e favore”. Tale
cocietà funzionò fino a che i carabinieri non sono definitivamente venuti in
Maierà ed aveva per iscopo: difenderci l’uno con l’altro, prestarci aiuto,
uccidere le spie, dividere il ricavato dei furti ed altro, soccorrere i
compagni carcerati. Ogni socio che prospettava di fare un qualsiasi reato aveva
il dovere di farlo conoscere con anticipo alla società per mezzo del picciotto
o del camorrista di giornata. Ogni reato doveva essere discusso ed approvato da
tutti, come fece Biancamano Arturo quando aveva ideato di uccidere il dottore
Uga Vaccaro. Il nostro comandante era Biancamano Arturo, a lui spettavano gli
onori, egli intascava la moneta da furti ed altro che poi divideva a noialtri
in ragione del grado che occupavamo, come avvenne quando furono rubate le
ottomila lire a Presta Pietro Maria in contrada Montesalerno, terrotorio di
Diamante, e che a me, in qualità di picciotto, mi toccarono lire cinquanta

poi tenta di prendere le distanze dalla famiglia e fa i nomi degli autori di
diversi furti –. Io sono sempre stato la
vittima dei loro ordini e dovevo ubbidire a quello che mi comandavano a scanso
di guai
Interrogati,
gli altri confermano la dichiarazione di Greco, compreso il pagamento (sarebbe
meglio dire l’estorsione) di 25 lire per essere ammessi nella famiglia,
aggiungendo qualche particolare, come per esempio Consiglio che rivela di aver
fatto parte della famiglia già dal 1909 al 1913 quando emigrò. Tornato nel 1915,
partì in guerra e quando rientrò in paese, nel 1919, trovò un’altra società. Siccome
i  vecchi compagni credevano ancora che
io fossi all’oro fedele, mi confidavano tutto in attesa che io mi chiamassi il posto
e mi incoraciavano
. Consiglio rivela anche le modalità per passare di
grado: ogni socio, passati 6 mesi di
anzianità, poteva progredire passando al grado di camorrista e ciò poteva
avvenire mediando un fatto di sangue commesso per difenderi uno dei socie se
veniva comandato, oppure mediando il pagamento di £ 50
. Cardillo invece
rivela la punizione da infliggere a chi non rispetta il regolamento della
famiglia: veniva scacciato dalla società
e sfregiato
. Ma quella di Francesco Cardillo è una storia diversa dalle
altre: accusato di avere partecipato, nell’aprile del 1923, al furto di uno
scrigno pieno di denaro e oggetti preziosi di proprietà di suo zio, l’Arciprete
Pasquale Guaglianone, nega e dice che il suo tergiversare nella partecipazione
all’impresa è stata la causa di un odio
tra me e loro
. Poi continua: nell’aprile
stesso m’iscrissi nel partito fascista e fui fatto squadrista. Dopo poco tempo
fui incaricato con altri dall’allora segretario politico, dottor Ugo Vaccaro, a
coadiuvare l’arma dei RR.CC. per addivenire alla cattura del detto pregiudicato
[Battista Biancamano]; infatti egli
lo seppe ed una sera nel ricasare si presentò a me con la pistola in pugno  e mi schiaffeggiò ingiungendomi di non
parlare se ci tenessi a vivere, per il quale fatto avvenne un procedimento a
suo carico; nel contempo sopraggiungeva mio cognato Aldo Urciuoli che avvertiva
il comandante la stazione, mentre io lo tenevo d’occhio, così riuscimmo la sera
stessa a catturarlo e per tale fatto io ebbi un voto di plauso sia dal
municipio, nonché dalla parte sana della popolazione
. Torrano, dopo aver
reso una dichiarazione in linea con gli altri, come in linea con gli altri è il
negare di avere preso parte direttamente a qualsiasi reato pur conoscendone
perfettamente i nomi degli autori e le modalità di esecuzione, fa una
dichiarazione inquietante: Finisco col
protestarmi alla Signoria Vostra ed ai testi che sottoscrivono questa mia
dichiarazione che se per aver detto tutto ciò mi succeda qualche quaio, sono
loro a farmelo, o per mezzo di qualcuno dei paesi circonvicini
.
Le denunce
con nome e cognome non si contano più e più si indaga, più si scoprono nuovi
associati, ma non vengono ancora emessi mandati di cattura. Il 20 maggio il
Tenente dei Carabinieri Giulio Fortunio, comandante la Tenenza di Paola, si
lamenta con il Procuratore del re: Quest’Arma
pur avendo fondati elementi per procedere a numerosi arresti se ne è astenuta,
in considerazione che l’associazione a delinquere è stata già a suo tempo
denunziata a V.S.Ill.ma e tuttora è in corso l’istruttoria. Qualora la
sullodata S.V.Ill.ma ritenga necessaria la cattura degli imputati, si prega
voler rimettere i relativi mandati a questa Tenenza perché possa predisporre il
concentramento di un numero di militari sufficiente alla bisogna
. Sembra
quasi che, come la Procura, anche il Tenente Fortunio se ne voglia lavare le
mani: questa storia sta diventando troppo complicata con i suoi 52 indagati. E
siamo solo all’inizio perché denunce su denunce arrivano anche ai Carabinieri
dei paesi vicini e il numero delle persone coinvolte deve essere aggiornato
continuamente.
Così l’indagine
rischia seriamente di sfuggire di mano al Vice Brigadiere Laganà che sta
prendendo la cosa come un fatto personale e pare che qualche volta esageri per
ottenere la confessione degli indagati, andandoli a prendere fuori dalla sua
giurisdizione. Quando tali Alberico Fiore, ventitreenne contadino di Cipollina,
Pietro De Marco, diciassettenne contadino di Grisolia, e Rocco Salerno,
quarantenne commerciante di Cipollina, vengono interrogati dal Pretore di
Verbicaro, raccontano ciò che sarebbe loro capitato quando ad interrogarli fu
Laganà:
Quando venni interrogato dall’Arma dei
Carabinieri in Cipollina e in Grisolia circa il furto patito dallo Annuzzo

– dice Fiore –, sapevo quello che ho
riferito a V.S., ossia un bel niente e tanto con sincerità riferii ai militi.
Ma il V. Brigadiere Laganà Saverio e il Carabiniere Petrone non vollero sentir
ragione; per minacciarmi più efficacemente mi mostrarono un coltello e con un
nerbo di bue e un bastone mi percossero in malo modo, cagionandomi lesioni che
mi costrinsero a letto per undici giorni. Io dovetti ripetere tutto ciò che
essi avevano detto e sottoscrivere uno scritto di mano del V. Brigadiere… non
mi feci visitare dal medico altrimenti Laganà mi avrebbe ucciso addirittura. Fu
tale il terrore mio che, se Laganà mi avesse proposto di condurgli mia moglie a
fine illecito, gliela avrei condotta
È vero che nella caserma dei Carabinieri di
Grisolia, alla presenza di Bellusci Giuseppe e dell’ex guardia municipale Campagna
Giovanni, dissi quanto si contiene in uno scritto al quale io apposi il segno
di croce, ma ciò che dissi allora, fingendo di essere sincero, era l’effetto di
ventiquattr’ore di chiusura nella camera di sicurezza, di minacce di morte da
parte del Vice Brigadiere Laganà Saverio e dei Carabinieri Garrafa e Petrone,
nonché di percosse con le mani, con bastone e con un nerbo di bue ad opera
degli stessi militari. A minacciarmi ed a percuotermi fu in ispecie il Laganà
il quale, in un certo momento, mi fece svestire sino ai calzoni, mi fece calare
questi e col nerbo me ne diè tante che mi ridusse le carni nere. Il Laganà mi
indicò tutto ciò che avrei dovuto dire, mi minacciò di morte , mi percosse, mi
fece minacciare di morte e percuotere dai due Carabinieri ed io, per effetto
delle minacce e percosse, come un pappagallo, ripetei quanto è scritto alla
rogatoria del Pretore di Belvedere
– racconta il diciassettenne Pietro De
Marco
L’anno scorso, in mese e giorno che non
ricordo, andai nella stanza adibita a caserma dei Carabinieri a Cipollina e vi
trovai il Vice Brigadiere Laganà e il Carabiniere Petrone che interrogavano
Fiore Alberico intorno al furto di una capra. C’era anche il segretario
politico della sezione fascista Pagano Alfredo. Alla nostra presenza Laganà
prima e Petrone dopo, percossero in malo modo e senza motivo di sorta il Fiore
con un pezzo di legno e con un nerbo di bue. Il disgraziato non emetteva un
lamento per non essere udito dal di fuori, ma si contorceva e piangeva. Dopo la
solenne lezione, il Fiore, senza parlare, firmò una carta scritta dal Laganà e
di cui ignoro il contenuto. Io ed il Pagano a quella nauseabonda scena
soffrimmo molto ma non mi permisi di muovere alcuna doglianza per paura che il
Laganà si rivoltasse contro di me. Poi io e Pagano sottoscrivemmo la carta

– dice il quarantenne Rocco Salerno, commerciante di Cipollina
Nella mia qualità di segretario politico
avrei dovuto riferire alle autorità superiori le mele fatte del Laganà Saverio
e del Carabiniere Petrone, ma me ne astenni per il buon nome della Benemerita
Arma
– ammette candidamente Alfredo Pagano
Saranno vere
queste accuse o si tratta di una strategia per screditare le indagini? Ma vere
o meno che siano, il problema per Laganà e per gli inquirenti è che a
suffragarle e renderle credibili ci sono due pezzi grossi.
Dopo le
accuse a Laganà, quelli che potremmo definire “collaboratori di giustizia” e
cioè Agostino Greco, Michele Oliva, Francesco Cardillo, Vincenzo Consiglio e
Settimio Torrano i quali hanno svelato dal di dentro l’organizzazione,
ritrattano ma l’inchiesta va avanti e adesso, dopo le denunce che arrivano
anche dal Sindaco di Diamante che lamenta la presenza della famiglia Montalbano
anche nel suo comune, le persone coinvolte arrivano all’incredibile numero di
152. Forse sono troppi da gestire, forse Laganà e i Pretori di Belvedere
Marittimo e Verbicaro, competenti per territorio, hanno esagerato, forse si
vuole evitare qualche possibile scandalo, fatto sta che quando le carte processuali
passano alla Procura del re di Cosenza e vengono esaminate dal Pubblico
Ministero Tocci, questi relaziona al Giudice Istruttore: molti degli attuali prevenuti furono altra volta denunziati e
processati per associazione a delinquere ma vennero assoluti per insufficienza
di prove. In aggiunta a quegli elementi che già il magistrato aveva ritenuto
insufficienti per la loro condanna, la nuova istruzione nessun elemento di
prova, nessuna circostanza, nessun fatto grave e specifico ha potuto accertare
che valga a far ritenere che effettivamente una vera e propria associazione a
delinquere esistesse e che i prevenuti ne facessero parte. Tutti i numerosi
testimoni si sono limitati ad esprimere degli apprezzamenti, delle supposizioni
non confortate però da elementi sicuri di prova. È vero che sono in atti due
verbali del comandante la stazione di Maierà e Grisolia in cui si ritiene per
certa l’esistenza dell’associazione a delinquere perché si sono potute
raccogliere le confessioni di alcuni dei componenti di essa. Ma tali
confessioni, sia perché generiche perché successivamente smentite da coloro che
le avevano fatte, sia perché non corroborate da nessuna altra circostanza, non
appaiono sufficienti a formare il convincimento della responsabilità degli
imputati. Perciò si chiede dichiarare non doversi procedere a carico di tutti
gli imputati per tutti i reati loro rispettivamente ascritti per insufficienza
di prove
.
Il Giudice
Istruttore Russo concorda pienamente con il Pubblico Ministero e, il 30 luglio
1928, mette la parola fine al processo, prosciogliendo tutti gli imputati in
istruttoria.[1]
A Maierà,
Diamante, Grisolia, Cipollina (oggi Marcellina) e nei paesi circostanti la
“famiglia Montalbano” può continuare indisturbata la propria attività.


[1] ASCS, Processi Penali.

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