Fioravante Amato, nato ad Amantea nel 1876, da giovane fa il sarto ma con scarsi risultati e così, approfittando del fatto che suo padre era stato guardia municipale, riesce a farsi assumere come inserviente al Comune di Amantea. A 25 anni si sposa con Maria Miraglia, che è più giovane di lui di 10 anni – però quando mi sono sposato a mia moglie non l’ho trovata buona, precisa – e i due fanno dieci figli.
Fioravante subito dopo il matrimonio rivela subito la sua indole: manesco, minaccioso, violento, brutale e rissoso. A farne le spese sono la povera moglie, che nel corso degli anni diventa una vera a propria larva umana perennemente coperta di lividi, e i figli, che di lui hanno terrore. Ma sull’altro piatto della bilancia ci sono la sua proverbiale onestà, correttezza e morigeratezza sul posto di lavoro e la fiducia che in lui moltissime persone ripongono è addirittura smodata.
Nel corso degli anni, però, le sue caratteristiche peggiori vengono, se possibile, aggravate dalle abbondanti bevute di vino che lo portano a tornare a casa quasi sempre ubriaco e allora sono botte da orbi per tutti quelli che gli capitano a tiro, prima fra tutti ovviamente sua moglie che fa scudo col proprio corpo ai figli. E con l’abuso di alcol cominciano ad arrivate anche le crisi convulsive che si accentuano col tempo e lo lasciano stordito e incapace di ricordare quello che ha appena combinato. È comprensibile che questo stato di cose pregiudichi anche il suo rapporto di lavoro, ma gli amministratori comunali, per pietà verso la di lui famiglia povera, chiudono un occhio.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, verso la fine del mese di aprile del 1928, ad Amantea si sparge la voce che Fioravante ha una relazione incestuosa con la sua figlia diciannovenne Rosa, che è incinta ma non si sa con precisione di quanti mesi.
La voce in questi ultimi giorni è uscita dallo stato di vocificazione circospetta e guardinga ed assunse il tono dell’accusa precisa e formale contro l’Amato, verso di cui si manifestò apertamente lo sdegno ed il raccapriccio della pubblica opinione – scrive il Maresciallo Filippo Giampaolo –. Tali nuove circostanze indussero il Segretario Politico del locale fascio ad espellere l’Amato per indegnità dalle fila del Partito Fascista. Anche il Podestà di Amantea licenziò dall’impiego l’Amato. Questi, intanto, per sottrarsi allo sdegno del pubblico si allontanò dal paese e tutti immaginarono che l’Amato fosse ricercato dalla giustizia perché colpito da mandato di cattura. Ma, come capita qualche volta in questi casi, la Giustizia ignora tutto. È il 5 maggio 1928.
La mattina dell’8 maggio, Stefano Grandinetti, capo manipolo della milizia fascista di Amantea, sta accompagnando in automobile il medico Luigi Florio a fare delle visite in contrada Cannavino quando si accorge che un uomo cerca di nascondersi dietro un muretto paracarro della strada.
– Non è che quello è Amato? – fa al medico.
– Fermatevi, se è lui cerchiamo di acciuffarlo ché lo accompagneremo in caserma – risponde Florio.
Grandinetti scende dall’auto, si affaccia dal muretto e riconosce Fioravante.
– Vieni con me, è finita!
– Vi prego, eccellenza, lasciatemi stare – lo implora prendendogli le mani tra le sue e cercando di baciargliele, ma Grandinetti le ritrae e lo spinge in macchina.
La voce dell’arresto di Amato si sparge in men che non si dica e subito vi fu un affacciarsi di persone dalle finestre e dalle porte, mentre le vie adiacenti si affollarono di una discreta folla e tutti, nel comunicarsi la notizia, manifestarono il proprio compiacimento per l’arresto del turpe individuo, emettendo al suo indirizzo parole di esecrazione.
Il Maresciallo, davanti all’eccitamento della folla, decide di trattenere l’uomo e di mandare a chiamare la moglie. La donna, che ormai ha davvero poco di umano per gli stenti patiti, racconta la sua tristissima storia:
– Mio marito mi ha sempre maltrattato fin dai primi giorni del nostro matrimonio – la voce è flebile, stentata e a fatica si riescono a capire le parole – e potete vedere in che stato sono ridotta. Egli era dedito al vino e quando ritornava a casa ubbriaco, il che avveniva spesso, dava le busse a me ed ai figliuoli e perfino le minacce a mano armata di rivoltella erano quasi immancabili. Tutti i figli, compresa Rosa, avevano grande soggezione del padre e lo temevano. Rosa non mi palesò nulla di quello che era avvenuto tra lei ed il padre, né io mi accorsi di nulla. Notai, è vero, per parecchi mesi che le mestruazioni non le venivano, ma lo attribuii alle continue paure di cui era vittima mia figlia per le scenate continue che il padre faceva in famiglia. Verso questi ultimi tempi però vidi che le cresceva il volume della pancia ed allora pregai mia zia Carolina di cercare di appurare se qualcuno l’avesse posseduta. Dopo pochi giorni mi diede l’orrenda notizia che mia figlia era stata posseduta proprio da mio marito – Maria fa il gesto di asciugarsi una lacrima, ma gli occhi sono asciutti, non ha più lacrime da piangere –. Tale notizia mi accasciò al punto che io neppure domandai né allora, né dopo, né a mia zia e né a mia figlia i particolari del fatto…
E Rosa? Cosa ha da dire Rosa su questa brutta storia?
– Mio padre è sempre stato un violento… – esordisce – io ho sempre avuto di lui una grande paura. Un giorno, non ricordo più se del settembre o del novembre scorso, mia madre ed i fratelli più grandi erano fuori di casa ed io ero rimasta per accudire i fratellini più piccoli e mia sorella Teresa che è idiota. Verso le quattro del pomeriggio i miei fratellini giocavano davanti la porta quando io vidi entrare mio padre ubbriaco. Egli chiuse la porta e senza profferire parola mi afferrò, mi riversò sul letto, mi alzò le vesti e mi abbassò le mutande. Io rimasi addirittura sbalordita e tentai più volte di rialzare e riabbottonarmi le mutande ma egli le riabbassava con maggiore violenza e salì anche lui sul letto. Si buttò sopra di me e, nonostante i miei sforzi per liberarmi… – Rosa si prende il viso tra le mani e singhiozza per il male che sente nel rievocare la scena e la vergogna di doverla raccontare a degli uomini. Il Maresciallo capisce lo stato d’animo della ragazza e la interrompe chiedendole:
– Non hai gridato? C’era tua sorella, hai detto.
– Io non gridai perché non c’erano nemmeno i vicini e quindi pensai che le mie grida sarebbero state inutili… e mia sorella non capisce niente… la teniamo sempre legata su di una sedia…
– Perché non lo hai raccontato subito a tua madre?
– Non palesai il fatto a mia madre né ad altri subito dopo sia perché sapevo il carattere violento di mio padre e temevo le sue ire e sia perché sentivo una grande vergogna… Poi mia zia Carolina mi ha chiesto se avessi avuto relazione con qualcuno ed in seguito alle sue insistenze le raccontai tutto…
– Tuo padre prima e dopo di allora ti aveva… dato fastidio?
– Mai in precedenza mio padre mi aveva fatto proposte oscene od altrimenti dimostrato la sua intenzione di possedermi, né dopo quella volta mi possedette più…
Il Maresciallo ed il Pretore di Amantea vogliono verificare di persona le affermazioni di Rosa e fanno un sopralluogo in casa Amato, così accertano che se i vicini non sono in casa e qualcuno gridasse non sentirebbe nessuno. D’altra parte si rendono perfettamente conto che Teresa, da questo punto di vista, è come se in casa non ci fosse: su un giaciglio in un angolo è legata l’Amato Teresina, idiota ed epilettica, ragione per cui i familiari sono costretti legarla onde evitare che si procuri del danno. Richiesta costei delle sue generalità non risponde ed emette soltanto grida inarticolate, guardando con occhio di ebete ed emettendo dalla bocca una specie di bava, ragione per cui si ritiene perfettamente inutile esaminarla sulle modalità del fatto.
Poi interrogano zia Carolina che svela dei retroscena interessanti:
– È stato mio nipote Fioravante a chiedermi se sua figlia Rosa avesse una relazione perché gli sembrava malata e come se nascondesse qualcosa. Io chiesi a Rosa cosa avesse e lei mi raccontò quel fatto orribile e che era incinta e io lo riferii a Fioravante, il quale negò tutto ma il suo contegno non mi parve sincero. Poi anche mia nipote Maria mi parlò esternandomi le sue preoccupazioni sullo stato della figlia, pregandomi di sondarla. Io, che già sapevo tutto, non ebbi il coraggio di dirle la cruda verità e le promisi che l’avrei accontentata. Dopo un paio di giorni le palesai tutto ed ella rimase come annichilita…
Ma i guai per Fioravante Amato non sono finiti. Sulla sua testa piove un’altra accusa, quella di avere rubato, prima di darsi alla latitanza, 44 lire dal cassetto della scrivania del segretario comunale.
– La notte prima di sparire, Fioravante Amato dormì nel comune e la mattina dopo, recatomi in ufficio, ho trovato scassato il tiretto ove erano conservate £ 48, rinvenendo solo 4 lire e centesimi. Pertanto i miei sospetti sono caduti sull’Amato e ciò con fondatezza perché nessun altro nell’assenza di noi impiegati è rimasto da solo nel Municipio. Prima dello scasso del tiretto l’Amato si è sempre dimostrato onesto e godeva della fiducia di tutti, tanto che diverse volte gli furono affidate somme e mai s’è dovuto lamentare inconveniente alcuno – mettono a verbale l’avvocato Eugenio Marinaro, Segretario comunale, e l’impiegato Luigi Di Lauro.
Ma se Marinaro e Di Lauro sembrano in qualche modo perplessi e imbarazzati dal comportamento di Fioravante Amato, il segretario politico del fascio di Amantea, Emanuele Gallo, non ha dubbi e gli dà addosso con veemenza, anche se non spiega come mai non abbia fatto alcuna segnalazione ai Carabinieri:
– Amato era già iscritto al fascio di Amantea quando assunsi la carica di segretario politico e appena lo conobbi mi convinsi di essere davanti a un pessimo individuo. E specifico: indolente come messo comunale, maleducato, fannullone, uomo di pochi scrupoli, poco amorevole verso la famiglia e verso la moglie specialmente, dedito al vino. Nel Municipio egli era mantenuto nonostante i suoi difetti per una certa pietà verso la famiglia. Egli dormiva nel Municipio per evitare di incontrare in casa il figlio, il quale forse avrebbe fatto qualche vendetta.
Fioravante non può accettare anche questa accusa e svela:
– In qualità di portiere del Municipio tenevo la chiave dell’ufficio per potere la mattina attendere alla pulizia del locale ed a quanto altro occorreva. Nei primi di maggio passai una notte sul portone del palazzo municipale avendo avuto quistioni in famiglia, però è assolutamente falso che io abbia approfittato di tale circostanza per rapinare il tiretto perché avevo lasciato le chiavi a casa e non potevo entrare…
E le prove di ciò? Sicuramente sta mentendo. Ma se si riflette un attimo c’è un particolare che dovrebbe scagionarlo dal furto: possibile che, essendo stato licenziato in tronco, gli avessero lasciato le chiavi del comune? Incredibile! E infatti l’arcano viene spiegato. Fioravante è ormai ridotto a una larva e gli amministratori, per pietà verso la famiglia, poverissima, non lo hanno licenziato formalmente (ha ragione il segretario del fascio) ma lo hanno lasciato al suo posto con la condizione che a sbrigare il lavoro sia suo figlio, il quattordicenne Antonio. Ecco, è Antonio ad avere le chiavi dell’ufficio, non suo padre, che non ha dormito dentro i locali ma steso davanti all’uscio come un cane. E cominciano i distinguo:
– Non posso, per coscienza, affermare che a commettere il furto sia stato proprio l’Amato – dice, come altri, l’impiegato comunale Antonio Perciavalle.
Ma è davvero sicuro che ci sia stato un furto con scasso all’interno degli uffici comunali? Non ci sono verbali dei Carabinieri che ne parlano, non ci sono denunce e non ci sono sopralluoghi. Anzi, pare che il tiretto scassato lo abbia visto solo il Segretario comunale e gli altri impiegati lo hanno dato per scontato. L’unico atto ufficiale nel quale si accenna al furto è la relazione del Pubblico Ministero al Procuratore del re. Ma tant’è.
In ogni caso, Fioravante Amato viene rinviato a giudizio davanti alla Corte d’Assise di Cosenza per i reati di violenza carnale con abuso di autorità e di relazioni domestiche e di furto qualificato per scasso e abuso di fiducia derivante da scambievole prestazione d’opera. È il 17 novembre 1928.
Il dibattimento si apre esattamente un anno dopo e la difesa cerca subito di mettere in chiaro la questione del furto e così gli impiegati che prima accusavano Fioravante di essere l’autore del furto, adesso giurano essere vera la circostanza che le chiavi le aveva il figlio Antonio e non lui. Addirittura si presentano dei testimoni che definiscono Rosa come una poco di buono, una donna libera, praticamente una puttana, ma i Carabinieri smentiscono queste malignità. Poi comincia ad emergere che l’imputato sarebbe un epilettico e la difesa presenta un certificato medico vecchio di qualche anno, nel quale si attesta che Fioravante soffriva di attacchi epilettici e che, quindi, deve essere sottoposto a perizia psichiatrica. Dopo un’aspra battaglia procedurale, la richiesta viene accolta e Fioravante Amato scende nell’inferno di Barcellona Pozzo di Gotto per essere giudicato dai dottori Vittorio Madia e Oreste Della Rovere. È il 20 dicembre 1929.
Fioravante racconta ai periti che suo padre, guardia municipale, era di temperamento nervoso e molto dedito al vino; spesso litigava con la moglie malmenandola e bastonandola, tanto da costringerla talvolta a scappare di casa. Esattamente ciò che faceva egli stesso.
Ma qual è la personalità psichica di Fioravante? I periti osservano che ha l’espressione fisionomica di persona stanca, un po’ triste, a volte cupa, ma prevalentemente indifferente e diffidente. Assume l’aspetto che riflette i diversi stati d’animo attraverso cui egli passa. Contestatogli il delitto di cui è imputato, non si turba quasi affatto, eccetto il manifestare per fugacissimo istante lieve tremito della voce; bensì nega, tergiversa, spiega a modo suo essere il fatto attribuitogli una vendetta di madre e figlia che vogliono perderlo, donde spunti deliranti persecutori, specie contro i familiari e nelle risposte riesce slegato, egocentrico, talora incoerente per lieve dissociazione ideativa. In effetti la sua percezione è un po’ tarda, si accompagna a memoria labile, con debole capacità di fissare nuovi ricordi e di evocarne di vecchi; essa è associata a critica del pari lacunare, fiacca ed indebolita, donde circoscritto il campo dell’attività mentale. Ma ove il periziando mostra una più forte e completa lacuna, una deficienza e decadenza vera, è nel campo affettivo ed istintivo. Datosi a grado a grado all’abuso di vino, alla crapula continua e progressiva perde ogni sentimento altruistico e l’amor proprio; si va spogliando fatalmente d’ogni solidarietà con gli interessi familiari e sociali, si disamora gradatamente per i congiunti verso cui, specie verso le donne, è violento ed aggressivo. Egli passa, per conseguenza, quasi ad un parassitismo domestico, all’ozio cronico, degradante per un soggetto normale, poco o nulla pel nostro soggetto. Oramai egli sfrutta la moglie, i figli, le figlie; non lavora più perché torpido e debole nell’intelligenza, nonché con profondo pervertimento del carattere e della coscienza, che mostra minorata.
La tendenza al bere vino in eccessiva quantità, la dipsomania, che è per sé stessa un impulso, secondo alcuni autori sarebbe un equivalente di attacchi epilettici, secondo altri costituirebbe una sindrome alcoolofica. Che l’epilessia riconosca spesso l’azione alcoolica, e nel nostro soggetto dessa possa avere tale causa patogenetica, è provato esaurientemente da due elementi indubbi: egli, prima di divenire alcoolista non soffrì mai né convulsioni, né crisi nervose di qualsivoglia natura; l’altro elemento causale indiretto di molto valore è dato dall’esser nata dall’Amato una figliuola idiota, verosimilmente concepita in un momento di ubbriachezza del padre. Ciò premesso non è difficile riconoscere nel quadro segnato ai lumi dei fatti processuali e dell’esame obbiettivo personale somatico-psichico già detto, che egli è affetto da un doppio stato morboso comunque anormale. E poi l’interdipendenza fra causa ed effetto e viceversa dell’alcoolismo cronico con l’epilessia è marcata e ben evidente nell’imputato; gli alcoolisti facilmente, se posseggono una predisposizione costituzionale epilettogena, che i sottoscritti ammettono nell’Amato, divengono degli epilettici e gli epilettici hanno morbosa tendenza a bere alcoolici.
Nessun dubbio può esistere quindi che l’Amato Fioravante sia in atto un ammalato di mente e che in istato particolarmente morboso si sia trovato allorché violentò la figlia.
Nessun dubbio che la malattia si sia iniziata già da tempo.
Dati i suoi impulsi e le episodiche crisi epilettiche a cui va incontro ed il decorso fatalmente cronico della sua infermità che lo rende pericoloso a sé ed agli altri, necessita la sua custodia e cura in un manicomio.
È fritto. Non uscirà mai più da lì. Ma c’è una sorpresa: la Corte d’Assise di Cosenza ordina al Direttore del manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto di far tradurre con estrema urgenza l’imputato nel carcere di Cosenza perché il processo deve riprendere. Per fare cosa visto che il giudizio dei periti è chiarissimo? Vedremo.
Il 20 ottobre 1930 Fioravante Amato e l’avvocato Stanislao Amato, suo difensore di fiducia, sono presenti in aula alla riapertura del dibattimento e c’è subito un colpo di scena. Richiamata a confermare le sue accuse contro il padre, Rosa Amato ritratta:
– Accusai mio padre ma non fu lui a possedermi, bensì uno sconosciuto.
Troppo tardi? Troppo comodo ora che il padre è stato dichiarato pazzo? Troppo poco per sembrare credibile? Pietà? Vergogna? I punti interrogativi sono infiniti e non avranno risposta perché la Corte non rivolge alla ragazza nessuna domanda per chiarire la ritrattazione. La cosa è molto strana anche perché nessuno dei testimoni che vengono ascoltati dopo Rosa modifica di una virgola le proprie dichiarazioni di fronte a questa novità.
Ma la questione che resta incomprensibile davanti al giudizio dei periti che attestano come Fioravante Amato sia un ammalato di mente e che in istato particolarmente morboso si sia trovato allorché violentò la figlia, è che tanto il Pubblico Ministero che la difesa chiedono alla Giuria la condanna dell’imputato riconoscendogli il beneficio del vizio parziale di mente. Perché? Perché allora lo hanno fatto sottoporre a perizia psichiatrica se ne disconoscono i risultati?
La Giuria fa tesoro di queste richieste e condanna Fioravante Amato a 3 anni, 5 mesi e 10 giorni di reclusione, oltre le spese, dichiarando condonato un anno della pena in base al Regio Decreto del 1 gennaio 1930.
La conseguenza è che il Presidente della Corte ordina l’immediata scarcerazione di Fioravante Amato perché la pena è stata già scontata con la carcerazione preventiva.
Fioravante non entrerà in manicomio nemmeno in seguito.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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