Sono quasi le 8,30 di mattina del primo marzo 1912 e Carmela Fuoco, attorniata da un gruppo di donne, sta bussando insistentemente alla porta di sua nipote Carolina nell’abitato di Colosimi, cercando nello stesso tempo di sfondare l’uscio. Un uomo le si avvicina a passo svelto.
– Che c’è? Perché vuoi buttare giù la porta?
– È da dieci minuti che tua moglie non risponde. La bambina piange e lei non risponde, mi sembra evidente che qualcosa non vada – risponde Carmela a Giuseppe Pirchio, ventottenne muratore di Monopoli.
– Spostati che ci penso io – le dice facendosi largo, poi con un paio di spallate la porta cede e lui, Carmela e le altre donne entrano in casa. La scena che si presenta ai loro occhi è di quelle che ti faranno venire gli incubi per il resto dei giorni: Carolina, in camicia da notte, appesa per il collo a una trave e la bambina di quindici mesi per terra sul pavimento, in mezzo a dei cuscini, che piange disperata proprio sotto i piedi della mamma. Ma non è tanto la vista orrenda del cadavere penzolante a fare impressione, quanto la consapevolezza che la bambina innocente, indifesa, ha assistito a tutto ciò che è successo in quella stanza.
Giuseppe, incurante della figlia, corre verso la moglie, la solleva cingendola con un braccio mentre con l’altro toglie dalla tasca un coltello e recide la corda che l’ha soffocata, poi l’adagia sul letto. Una donna gli dà uno spintone, afferra la piccola e la porta via al sicuro.
Intorno al collo di Carolina la corda fa due giri ed è assicurata da due nodi normali. Giuseppe scioglie i nodi e butta la corda, subito raccolta da Giovanna Angotti, accorsa con le altre donne, che la rimette al collo del cadavere.
– Che fai? – le urla Giuseppe che non mostra segni di disperazione.
– La corda la devi lasciare dov’era fino a che non arrivano i Carabinieri – gli risponde decisa mentre fissa nella propria mente tutti i particolari della stanza. Trova singolare il fatto che la cordicella fosse annodata con nodi normali e non con un nodo scorsoio e sebbene sia giorno fatto, in una nicchia nel muro accanto al capezzale del letto un lume a petrolio è ancora acceso; dalla trave a cui era appesa la povera Carolina pende un lenzuolo annodato a cui è legata la cordicella tagliata da Giuseppe. Il letto, che mostra i segni che i coniugi vi hanno dormito, non è del tutto disfatto e per terra non ci sono oggetti. Trova anche strano che il vedovo, quasi con noncuranza, si avvicini alla nicchia e spenga il lume.
Poi, all’improvviso Giuseppe cede e comincia a piangere e disperarsi battendosi il viso e strappandosi i capelli:
– Perché ti sei strangolata? – urla in continuazione come un pazzo.
Quando arrivano i Carabinieri fanno uscire tutti e chiedono al marito di ricostruire i momenti precedenti la tragedia e se sia a conoscenza dei motivi che hanno spinto la poveretta a togliersi la vita.
– Ieri sera, dopo mangiato, abbiamo chiacchierato un po’ e poi siamo andati a dormire. Verso le quattro mia moglie si è svegliata, mi ha detto di sentirsi poco bene e mi ha chiesto di andare da sua sorella a Melilla per farsi mandare un po’ di carne salata e di farla venire a casa nostra per aiutarla a lavare della biancheria. Ho aspettato le sei e sono uscito per accontentarla. Lei era a letto con la bambina e io ho lasciato la porta socchiusa. Quando sono arrivato a Melilla, siccome ho incontrato Carolina Collia, invece di andare da mia cognata, le ho chiesto se fosse stata disposta a lavare la biancheria. Lei ha detto di si e ci siamo messi d’accordo che io sarei tornato indietro a prendere i panni sporchi e lei sarebbe andata a chiedere la carne per conto mio e ci saremmo incontrati al mio ritorno, così le avrei dato la biancheria da lavare e lei mi avrebbe dato la carne. Sono tornato indietro che erano le otto e mezza e ho trovato la sorpresa… – poi continua riferendo quelli, che secondo lui, sono i motivi del suicidio – ritengo che mia moglie siasi suicidata perché spinta dalla gelosia, ritenendo che io l’abbandonassi per convivere, come feci il decorso anno, con altra donna a nome Sirianni Rosa da Melilla e pel quale fatto vi furono querela ed arresto ed anche per la miseria che vi era nella nostra casa, stando che io non lavoro da quasi 2 mesi…
Mentre Giuseppe racconta queste cose al Brigadiere Salvatore Bevilacqua, comandante della stazione di Colosimi, fuori dalla casa si alza sempre più forte il vocio dei paesani che, al contrario, lo accusano di avere assassinato la povera Carolina. Sull’onda emotiva della protesta di piazza, Bevilacqua pensa bene di fermare l’uomo e di portarlo in camera di sicurezza, sia perché qualcosa non gli torna, sia per non esporre Giuseppe a possibili tentativi di linciaggio.
La prima a presentarsi in caserma per accusarlo è proprio Giovanna Angotti che, oltre a raccontare tutte le stranezze che ha mentalmente annotato, rivela altri particolari:
– L’ha sempre ammazzata di botte, questo deve essere chiaro. Dopo averla abbandonata per andarsene con Rosa Sirianni, con la quale ha fatto anche un figlio, due o tre mesi fa, dietro la promessa di non picchiarla più, l’ha convinta a riprenderselo in casa, ma lui ha ricominciato tutto come prima. Carolina mi raccontò che le faceva ogni sorta di sevizie e mi disse ancora che un giorno, avendo cotto dei cavoli ed essendosi poi allontanata perché la bambina sua piangeva, nel tornare trovò i cavoli di color giallognolo e ritenne che fossero stati avvelenati. Di ciò ne fece menzione al marito che non rispose e di accordo li buttarono via. Dopo due giorni avvenne la stessa cosa, per cui la Fuoco si mise maggiormente in sospetto; e poiché il marito pretendeva che essa ne avesse mangiato, ella si oppose dicendo: “Mangiane prima tu ed io farò lo stesso” ma a ciò il Pirchio non volle aderire e, adiratosi, la percosse e la Carolina mi mostrò un fianco annerito ed il dito pollice di una mano che non poteva muovere. Stamattina di buon’ora stavo scendendo da Rizzuti a Colosimi quando ho visto Giuseppe che stava venendo dalla strada provinciale per una scorciatoia e camminando a passo svelto mi ha raggiunta e superata verso Colosimi. Mi è sembrato essere impaurito e sconvolto… poco dopo abbiamo fatto la scoperta… a me pare fuori dal mondo che uno che si vuole impiccare riesce ad annodarsi la corda intorno al collo con nodi comuni…
Mentre numerosi testimoni raccontano delle continue botte che la povera Carolina prendeva dal marito e della relazione tra questi e Rosa Sirianni, una donna racconta, smentendo Giuseppe, che la sera prima ha sentito i due litigare. Poi arrivano i risultati dell’autopsia.
Capelli con ciocche disfatte, anzi arruffate. Faccia tranquilla lievemente enfia e congesta. Occhi chiusi: arrovesciate le palpebre si riscontrano pupille discretamente dilatate ed ecchimosi presentansi sulle congiuntive oculo-palpebrali. Dalle narici fuoriesce in piccola quantità sangue spumoso. Bocca chiusa che non permette di osservare momentaneamente la lingua a cagione del forte trifoma. Al collo si nota un doppio solco di colorito pallido, poco profondo, con margini leggermente rilevati, di consistenza piuttosto molle, di cui uno dei giri, quasi completamente circolare, ha una direzione trasversale all’asse mediano del collo stesso e l’altro interrotto sulla nuca ha una lieve inclinazione davanti in dietro e dal basso in alto. Si rilevano sul collo stesso, e specialmente sulle parti laterali di esso, e più marcatamente a sinistra, varie ecchimosi accompagnate da piccole escoriazioni e da unghiature. Su ambo le regioni clavicolari si riscontrano ecchimosi molto più vaste, che a sinistra si continuano fin sopra la mammella. Sulla regione scapolo omerale sinistra vi è una ferita contusa irregolarmente circolare della dimensione di un soldo, con un’area ecchimotica circostante abbastanza estesa. In dietro sul dorso, oltre a varie macchie ipostatiche, si riscontrano cinque lacerazioni cutanee sulla regione scapolare sinistra ed un’altra lunga quasi tre centimetri sulla regione scapolare destra, in prossimità del margine esterno; lesioni tutte dovute a colpi di unghie.
Procedutosi alla dissezione dei tessuti del collo, si sono notate delle soffusioni sanguigne localizzate nel cellulare sottocutaneo il quale, in corrispondenza del solco cutaneo, non si presenta né addensato, né di aspetto argentino. Nessuna lesione nelle cartilagini della laringe; la mucosa laringo-tracheale però si trova vivamente arrossata, congestionata, coperta da spuma sanguinolente finemente areata e diffusa fino ai medi bronchi. I polmoni sono fortemente congestionati e sulla regione occipitale sinistra c’è una profonda contusione con pestamento dei tessuti molli.
Tutto ciò, in parole povere, vuol dire che, si, la morte è avvenuta per asfissia provocata da strangolamento ma la morte è avvenuta prima dell’impiccagione, cioè Carolina è stata assassinata, come tutti sospettavano.
Giuseppe Pirchio è fritto.
Ma i Giudici e i Carabinieri sospettano che Rosa Sirianni avesse potuto concorrere in qualche modo all’attuazione dell’efferato delitto o determinando o consigliando, o in altro modo incitando il Pirchio a commetterlo.
Molti testimoni raccontano di averla sentita dire, dopo che Giuseppe era stato ripreso in casa da Carolina, frasi come: “Essa va a Colosimi e si avvicina al Camposanto e presto la conteranno all’ufficio mortuario”.
Nella perquisizione che i Carabinieri fanno in casa sua vengono trovate due cartoline illustrate speditele da Giuseppe. In una delle due, sotto un francobollo staccato c’è un messaggio d’amore, nell’altra sembra esserci scritto un messaggio cifrato: una croce e un Si. Evidentemente, pensano gli inquirenti, alla richiesta di Rosa di sbarazzarsi della rivale, Giuseppe ha acconsentito con quel messaggio. Rosina viene arrestata ma, dopo avere ammesso che le cartoline sono sue e le sono state spedite dall’amante, ritratta e dice che sono di un certo Giovanni Scarpino il quale, interrogato, conferma, ma gli inquirenti ritengono che stia mentendo. Rosina, a questo punto, ripercorre le fasi della sua relazione con Giuseppe e spiega il mistero del messaggio cifrato, quindi finisce con l’accusare l’amante:
– Io sono entrata in relazioni intime con Pirchio Giuseppe nel dicembre 1910 quando egli era già sposato. – esordisce. Da altre testimonianze, al contrario, la relazione viene fatta risalire in epoca antecedente il matrimonio tra Giuseppe e Carolina – Rimasi incinta di lui ed insieme andammo in Taverna per nascondere la mia gravidanza. Il Pirchio abbandonò la moglie in Melilla presso suo padre e rimase a convivere meco in Taverna. Intanto, dopo qualche mese fummo arrestati per adulterio, ma essendo stati subito escarcerati, ritornammo in detto comune ove io rimasi fino al dieci luglio, epoca in cui ritornai in Melilla, in compagnia di mia madre che mi venne a rilevare e ricondusse nella casa paterna ove io mi sgravai nel tre ottobre. Il Pirchio continuò a rimanere a Taverna, non ricordo bene se fino al novembre od al dicembre successivo. Ritornato in Melilla si riconciliò con la moglie ed insieme andarono a Colosimi. Da quell’epoca io non ebbi più rapporti con il Pirchio, dal quale non avevo nulla da sperare. Mi ritrassi nella mia casa tra mio figlio e mia madre e non volli più sapere di lui. Egli veniva continuamente in Melilla ove si tratteneva lungamente, anche delle mezze giornate, ma io non gli ho dato mai più confidenza. Egli passava e ripassava innanzi la mia casa, vedeva qualche volta il mio bambino che tenevo sulle braccia, ma non si permetteva di entrare in casa. Egli né lavorava né aveva diversamente come procurarsi i mezzi di sussistenza, viveva alle spalle della propria moglie, la quale ora dal padre, ora da qualche altro parente od amico, riceveva un po’ di pasta o qualche altro genere alimentare. Il Pirchio è un pessimo soggetto: egli ha maltrattato sempre la propria moglie e prima, e dopo di avere relazioni con me. Io ero prima in buonissimi rapporti con la povera Fuoco, ma dopo le relazioni adultere col marito i nostri rapporti di amicizia furono troncati. Io il mattino del 1° marzo appresi dalla voce pubblica che la povera Carolina era stata trovata strangolata e ritengo quello che ritengono tutti, che cioè il Pirchio l’abbia prima strangolata e poi impiccata. Egli era capacissimo di farlo, dato il suo carattere terribile e non è assolutamente verosimile e possibile che la Fuoco si sia impiccata. Egli è di famiglia sanguinaria: un fratello di lui uccise la propria fidanzata, non so per qual motivo. Io però sono assolutamente innocente e non ho altra colpa che quella di aver avuto relazioni con lui. Io non potevo mai immaginare che egli arrivasse a tal punto di malvagità di uccidere così barbaramente la moglie. L’altra cartolina è ancora più vecchia e mi fu spedita da un altro giovane, Scarpino Giovanni da Coraci, agnominato Si e perciò nella cartolina appare il suo agnome.
Giuseppe non si dà per vinto e continua, nonostante gli esiti dell’autopsia, a sostenere la tesi del suicidio e continua a ripetere:
– Mia moglie, che io adoravo, costituiva per me l’unico bene che io avevo al mondo [Nel verbale di interrogatorio, il Giudice Istruttore, evidentemente meravigliato di tanta spudoratezza, fa annotare tra parentesi che le parole scritte nel verbale non sono riassunte o mediate dal cancelliere ma parole proprie dell’imputato. Nda.] –. Sostiene che quando l’ha liberata dalla corda che le serrava la gola stava ancora respirando e che è morta subito dopo. La bambina? Lui, quando è uscito, l’ha lasciata nel letto accanto alla mamma e per terra in mezzo ai cuscini l’ha messa sicuramente Carolina. Lui è innocente e non si meraviglia che a Colosimi tutti lo accusino di avere compiuto quell’orrendo crimine. Poi termina – Io non ho fatto male a nessuno, sono capitato come Gesù che dopo essere stato legato, tutti lo sputavano.
Dopo tre mesi di carcere preventivo, due richieste di proroga delle indagini e tre confronti, Rosa Sirianni viene messa in libertà provvisoria perché, ammette il Pubblico Ministero, gli indizi di reità accennati in primo tempo ed emersi vagamente dalle prime indagini relative all’efferato omicidio commesso indubbiamente dal Pirchio, non hanno ricevuto conforto sufficiente di prova atto a legittimare il di lei arresto sotto l’imputazione di complicità in omicidio.
Ci vorrà il 26 febbraio 1913, quando la Camera di Consiglio del Tribunale di Cosenza pronuncia la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Rosa Sirianni per il reato di complicità in omicidio per fare un po’ di chiarezza: i Giudici sostengono che dopo essere stati condannati per adulterio, la relazione tra Rosa e Giuseppe effettivamente si ruppe e se qualche volta furono visti parlare tra di loro, è certo che essa non volentieri lo tollerava, ciò che determinò il Pirchio ad uccidere la moglie in quanto, eliminato l’ostacolo, la Sirianni non avrebbe certo tentennato a riprendere le relazioni intensamente come prima. Poi chiariscono anche il mistero della cartolina postale: non proveniva da Pirchio, ma da altro, e quindi questo indizio che sembrava gravissimo è stato dalla istruzione sfatato.
Giuseppe Pirchio viene rinviato a giudizio e il dibattimento viene fissato per il primo aprile 1914. Il processo nasce male tra giurati che non si presentano e vengono multati, testimoni che sono emigrati o che sono stati trasferiti o che improvvisamente si ammalano ogni volta che vengono convocati. Di rinvio in rinvio si arriva al 12 gennaio 1915 ma anche questa volta c’è un intoppo: il cambio del Codice di Procedura Penale. Se all’epoca dell’omicidio il Codice non dava diritto all’imputato di presenziare all’autopsia, direttamente o tramite un proprio perito, il nuovo Codice prevede questa possibilità e gli avvocati Fagiani e Berardelli chiedono alla Corte di poter nominare un proprio perito per esaminare i risultati dell’autopsia. Viene indicato il dottor Bruno De Simone di Cosenza e la causa è rinviata di nuovo. L’esito della controperizia non porta alcuna novità e, finalmente, l’11 marzo 1915 si può iniziare per davvero. Cinque giorni dopo la Giuria è già in grado di emettere il proprio verdetto: Giuseppe Pirchio è ritenuto colpevole del reato di omicidio premeditato e, concesse le attenuanti, condannato a venti anni di reclusione. Il ricorso in Cassazione sarà rigettato.[1]
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[1] ASCS, Processi Penali.
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