PER BRUTALE MALVAGITÀ

È mezzogiorno quando il 2 giugno 1917 gli Agenti di Pubblica Sicurezza Vincenzo Puma e Adolfo Arcadi fanno entrare nei locali della Delegazione di Cosenza una ragazza, visibilmente scossa, con in braccio un bambino che piange disperatamente.
– Mi chiamo Vittoria Rocca, ho diciannove anni e sono di Zagarise in provincia di Catanzaro – esordisce – circa due anni fa, a seguito di lusinghiere promesse di matrimonio  da parte di Vito Marchese di San Nicola di Crizza, restai incinta. Durante la gravidanza Vito venne richiamato alle armi e io mi trasferii a Sersale dove abitai per qualche mese e poi mi trasferii a Catanzaro dove, dopo otto giorni di ricovero all’Ospedale Civile, partorii questo bambino – continua accarezzandogli la testolina – che battezzai col nome di Rocca Giovanni di Vittoria, dopo averlo registrato al Comune. Tornai a casa dai miei genitori e lì mi raggiunse Vito che, nel frattempo, era stato riformato e con nuove promesse mi indusse a seguirlo a Cosenza dove aveva trovato lavoro alla fabbrica del tannino. Stamattina sono uscita per fare la spesa e ho lasciato in casa Vito e Giovannino ma quando sono tornata, abitiamo a Cosenza Casali nella casa di Borrelli, ho trovato la finestra sbarrata e la porta chiusa con la chiave nella toppa. Sono entrata e Vito non c’era più, aveva anche portato via le sue cose; però c’era Giovannino per terra, nudo, che piangeva. Quando l’ho preso in braccio ho visto i segni delle botte… più che botte sono morsi, si vedono pure i segni dei denti… guardate anche voi – dice slacciando la camicina del bambino e porgendolo agli Agenti – sono dappertutto…
Puma e Arcadi cercano di calmarla e mandano a chiamare un medico che certifica le lesioni e le giudica guaribili in un paio di settimane. Poi si mettono alla ricerca del venticinquenne Vito Marchese detto ‘U Ciaramellaru ma non riescono a trovarlo nemmeno al lavoro, dove non si è presentato. Dopo qualche giorno i due Agenti vanno a casa di Vittoria e non trovano nemmeno lei:
– È partita… ieri è venuto un uomo a dirle qualcosa e stamattina se n’è andata col bambino – risponde loro una vicina di casa.
– Ma era il marito… cioè l’amante… insomma quello che abitava con lei?
– No no! Non l’avevo mai visto prima…
I due agenti tornano alla Delegazione e archiviano l’indagine.
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Amantea, 9 luglio 1917. La cantina di Luisa Andreani è un fresco rifugio nelle ore più calde del pomeriggio e il postino Luigi Furelli, appena terminato il lavoro, va a bere un bicchiere di vino fresco. L’ostessa, nel versargli il vino, gli dice:
L’hai inteso cosa ha fatto questa porca fricata?
Chi? – le chiede il postino.
La straniera.
Che ha fatto? – continua il postino portando alle labbra il bicchiere.
Ha fatto morire a furia di botte un bambino di 18 mesi, anche mordendolo sul viso e torcendogli i coglioncelli!
Secondo me il bambino è morto proprio per il fatto che gli ha torto i testicoli… – risponde quasi distaccato Furelli, mentre si asciuga la bocca col dorso della mano. Poi posa il bicchiere ed esce dalla cantina.
La notizia ha già fatto il giro del paese perché l’Ufficiale Sanitario, dottor Pietro Arlia, che è stato chiamato nella casa di via Margherita dove abitava il bambino con i genitori per costatarne il decesso, ha notato sul corpicino delle lesioni incontestabilmente dovute a percosse che, secondo il medico, hanno provocato al bambino delle forti convulsioni e quindi la morte. Di conseguenza, il dottor Arlia ha relazionato al Vicebrigadiere Domenico Bova, che è intervenuto immediatamente arrestando i genitori.
– Mi chiamo Vittoria Rocca, ho 19 anni e sono di Zagarise in provincia di Catanzaro – si, proprio lei – Vito Marchese non è mio marito ma è il padre del mio povero bambino –. poi continua raccontando la storia della sua vita, omettendo però i mesi trascorsi a Cosenza e la relativa denuncia contro Vito per i maltrattamenti a Giovannino, ma ammette vagamente qualcosa – Negli ultimi tempi mi sono accorta che Vito non vedeva più di buon occhio il bambino, ma non so perché. Io non ho mai maltrattato né picchiato Giovannino, nemmeno lievemente e se qualcuno è responsabile della sua morte, non può che essere Vito!
– Non so spiegarmi cosa sia successo – attacca Vito – mai l’ho maltrattato perché era figlio mio anche se non porta il mio cognome… ho solo visto sul viso del bambino dei segni, ma sicuramente sono dovuti a qualche caduta perché era un bambino molto vivace…
– Allora lo ha picchiato la madre… – insinua il Vicebrigadiere.
– Io non ho mai visto che lo picchiava… ma non posso dire che non l’abbia fatto quando non ero in casa…
I dottori Filippo Verre e Andrea Veltri sono incaricati di eseguire l’autopsia su Giovannino che è stato portato nella camera mortuaria del cimitero. Il cadaverino giace in una cassa di abete foderata internamente ed esternamente con tela color rosa. Intorno alla testa ha una corona di fiori d’arancio artificiali; sul petto confetti e garofani già appassiti. Indossa veste, sottoveste, camicia e corpetto di tela bianca, quest’ultimo tenuto aderente al petto con fascia di cotone pure bianca; calza scarpine bianche ed i piedini e le piccole gambe sono ricoperte di calzini del medesimo colore. Verre e Veltri si commuovono quando denudano il corpicino, poi si fanno il segno della croce e cominciano il loro lavoro. Annotano che Giovannino è lungo 76 centimetri, che ha il cranio dolicocefalo e che presenta numerose cicatrici: una sulla regione frontale destra della grandezza di un piccolo fagiuolo: intorno ad essa si osserva suffissione sanguigna bluastra. Una seconda cicatrice ricoperta da crosta sulla regione deltoidea del braccio destro a forma di losanga, lunga 2 cm circa; una terza cicatrice sulla regione inguinale destra e sullo scroto una ecchimosi più diffusa a destra; una quarta cicatrice sulla regione dorsale della grandezza di un fagiuolo; in vicinanza del rafe un’abrasione cutanea di data piuttosto recente; sulla regione latero-cervicale sinistra, dove come si è detto è più intenso il marezzamento venoso, notasi una tumefazione la quale si estende alla regione mastoidea e a quella temporale del lato omonimo e agli arti superiori. Con la palpazione si constata un sensibile crepitio dovuto alla presenza di aria nel tessuto sottocutaneo (enfisema); in vicinanza del muscolo sterno-cleido-mastoideo si nota una perdita di sostanza che interessa soltanto l’epidermide, mettendo a nudo il derma. La lesione è di data recente e si estende alla regione sopra e sottoioidea e ha un’estensione di circa 8 cm; sulla regione zigomatica destra una lividura a forma ovale del diametro massimo di 6 cm; sulla regione posteriore del braccio destro una lividura recente di forma ovoidale del diametro massimo di 6 cm che ha le seguenti caratteristiche: un alone bluastro interrotto in alcuni tratti per brevissima estensione. Queste due ultime lividure in linguaggio comune si chiamano morsi. I periti riscontrano anche che il bambino era affetto da rachitismo, da tubercolosi diffusa a tutto il polmone destro e da un focolaio di pneumonite traumatica estendentesi a tutto il lobo superiore del pulmone sinistro. Patologie, queste, che da sole avrebbero potuto portare Giovannino alla morte, facendola rientrare in quella tipologia che viene definita morte improvvisa.  I periti si spingono addirittura oltre e affermano: crediamo non lontano il giorno in cui più che parlare di morte improvvisa nei bambini come entità a sé, potremo più propriamente parlare di lesioni che possono, nell’infanzia, riuscire rapidamente mortali.
Quando Verre e Veltri aprono il cranio del povero Giovannino notano che la dura madre è fortemente iniettata di sangue specialmente nella regione occipito-temporale destra; la massa cerebrale si presenta spappolata, ridotta a una poltiglia da non permettere di eseguirvi i tagli prescritti dalla tecnica. Quello che però ci colpisce è un abbondante stravaso di sangue specie sulla regione parieto-occipitale di destra.
Poi passano ad analizzare in che modo sono state prodotte le lesioni sul corpo del bambino, la causa della morte, i mezzi che l’hanno prodotta e quando questa è avvenuta.
Le lesioni sono certamente traumatiche e non è possibile determinare (morsi a parte) la natura del corpo contundente che le hanno prodotte in periodi diversi. Per quanto riguarda la causa della morte, scartata l’ipotesi dello strozzamento, sostengono che questa sia stata dovuta alla contusione profonda sulla regione latero-cervicale sinistra che ha dato luogo a pneumonite traumatica e che in un soggetto rachitico e tubercolotico, e quindi eminentemente predisposto alle convulsioni eclampsiche, ha determinato la morte per eclampsia (Sindrome caratterizzata da convulsioni simili a quelle epilettiche ma che non sono provocate da una malattia cerebrale. Nda). Secondo i periti, quindi, sebbene la causa immediata della morte sia stato il colpo sul collo di Giovannino, altrettanto immediate sono state le patologie di cui il bambino soffriva e che lo avrebbero comunque portato, a scadenza più o meno breve, a morte certa. Tutto questo assodato, poiché non ci è dato ammettere che la madre fosse consapevole del male incurabile che minava la tenera esistenza del proprio bambino, ci porta ad ammettere le concause preesistenti.
Ad Amantea i sospetti cadono tutti su Vittoria, accusata principalmente dalle vicine di casa, come esecutrice materiale del delitto, mentre per Vito si ipotizza che sia stato suo complice.
Il bambino piangeva sempre e da qualche giorno presentava una ecchimosi al volto… la madre lo sgridava sempre e non voleva allattarlo – riferiscono Marianna Rizzo e Annunziata Bonavita la quale, tuttavia, aggiunge – udendolo piangere accorrevo con grande sollecitudine giacché era giunto al mio orecchio dai miei bambini e dai loro coetanei di appena cinque o sei anni i quali accorrevano presso il suddetto bambino che se ne stava seduto su di un seggiolino, che la madre lo percuoteva. Rammento che l’imputata, allorquando le chiedevo cosa avesse colui che piangeva, mi rispondeva che voleva poppare e poiché io la incitavo ad accontentarlo, essa mi replicava che era incinta di quattro mesi e che non poteva più allattarlo. Non mi consta, né mi sono accorta che la imputata o l’amante di lei abbiano maltrattato o percosso il bambino. Credo però che l’amante non abbia potuto picchiarlo perché se ne stava sempre a lavorare alla stazione per il carico dei carboni e si ritirava dal lavoro per mangiare e per dormire.
– Ma se accorrevate immediatamente ogni volta che il bambino piangeva, possibile che non vi siate mai accorta che la donna lo picchiava? – le contesta il Pretore – eppure da quello che è emerso dall’autopsia questa circostanza è lampante…
Ho detto la verità e confermo tutto – risponde.
– Secondo me sapete più di quanto dite perché riesce difficile pensare che non abbiate approfondito le parole che vi hanno detto i vostri figli e gli altri bambini…
– Insisto nel dire che non l’ho mai vista picchiare il figlio.
Vito è considerato un brav’uomo, dedito al lavoro dalle sei di mattina alle nove di sera non muovendosi mai, tanto che la sua amante Rocca Vittoria verso mezzogiorno gli portava da mangiare, dice Giuseppe Proto, proprietario della ditta presso cui lavorava. Mai percosse o maltrattò il bambino ed anzi pareva gli volesse bene, tanto che non rifuggiva di quando in quando di portarlo a camminare unitamente all’amante nelle sere in cui si ritirava meno stanco, giura il collega Pietro Tamburi.
Insomma, tutti ne parlano ma nessuno ha visto niente, eppure i segni delle botte Giovannino li aveva ed erano anche evidenti!
La notizia della morte di Giovannino si sparge e, casualmente, viene a conoscenza degli Agenti di P.S. Puma e Arcadi, i quali ricordano perfettamente la denuncia sporta da Vittoria contro Vito e trasmettono gli atti al Giudice Istruttore.
Dopo questa novità, Vittoria e Vito affrontano un drammatico confronto davanti al Pretore:
Pensai e penso tuttavia ragionevolmente che nessun altro se non tu poté cagionargli i cinque morsi alle spalle ed in altri punti del corpo, nonché due larghe ecchimosi nelle guancie. Fu per questo che ti denunciai all’Autorità di P.S., come ti denuncio all’autorità giudiziaria sostenendotelo in faccia. Non avevo né ho ragioni di rancore contro di te e per tanto non è il caso di parlare di vendetta, sentimento, questo, che nel mio animo non è mai albergato – accusa Vittoria.
Dici quel che vuoi; fate quel che volete; mandatemi dove vi pare; a me non importa. Dico soltanto ed affermo che mai, e tanto meno il due giugno ultimo (a Cosenza, nda) ho maltrattato e percosso Giovanni – ribatte Vito col tono di chi ormai è rassegnato al proprio destino.
Adesso tutto sembra più chiaro: è Vito ad essere il principale indiziato e il movente va ricercato nella brutale malvagità del proposito del Marchese di sopprimere la creaturina per sottrarsi agli obblighi di cura e di alimenti, sostiene il Sostituto Procuratore Filippo Coscarella, che continua: Se dubbio permane sulla responsabilità della donna, in quanto ella avrebbe, in epoca precedente, denunziato alla P.S. i maltrattamenti subiti dal piccolo Rocca ad opera del suo amante, nessun dubbio può sussistere sulla responsabilità del Marchese il quale, anche col suo contegno remissivo e supplicante tenuto nei diversi confronti con la druda, ha rivelato di essere il colpevole.
La motivazione della richiesta di rinvio a giudizio per Vito Marchese e Vittoria Rocca è di quelle che fanno piegare le ginocchia: per avere nel 9 luglio 1917 in Amantea ed in precedenza in Cosenza Casali, con gravi sevizie e per brutale malvagità, cagionato la morte di Rocca Giovanni di mesi 18, figlio naturale della Rocca Vittoria. Pena prevista: ergastolo.
La Sezione d’Accusa sposa in pieno la tesi della Procura del re di Cosenza e i due amanti sono rinviati a giudizio. È il 18 febbraio 1918.
Nel dibattimento, l’avvocato Tommaso Corigliano, che difende Vittoria Rocca, e l’avvocato Ernesto Fagiani, che difende Vito Marchese, trovano un appiglio nella perizia autoptica e così riescono a smontare la tesi dell’accusa, almeno per quanto riguarda la qualifica della brutale malvagità: le percosse e i maltrattamenti non sono affatto provati, affermano, e la morte rientra perfettamente in quella che i periti hanno definito morte improvvisa.
Il Pubblico Ministero resiste ma poi si arrende e nella requisitoria ritira l’accusa di omicidio per entrambi gli imputati. Sostiene i maltrattamenti a carico del Marchese e ritira questa accusa a carico della Rocca.
Fagiani non è ancora soddisfatto e chiede che Vito Marchese sia assolto anche dall’accusa di maltrattamenti.
Il 30 giugno 1920 viene data lettura della sentenza: assoluzione per Vittoria Rocca, che nel frattempo ha partorito un altro maschietto, e condanna a due anni e due mesi di reclusione per Vito Marchese, responsabile dei maltrattamenti a Giovannino.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS,Processi Penali.

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